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Atenei e pagelle, sistema da riformare?

Atenei e pagelle, sistema da riformare?

Di Leandra D’Antone* |

Niente di nuovo sotto il Sole (24 ore), è il caso di dire a proposito delle recenti classifiche del quotidiano di Confindustria sulle Università italiane. Primeggerebbero Verona e Trento (con il Centro-Nord), con San Raffaele, Bocconi e Luiss tra le private (ma finanziatissime dallo Stato). Le peggiori sarebbero quelle del Sud, con l’eccezione unica di Salerno (come mai?). Secondo i criteri vigenti, quelle giudicate migliori andrebbero premiate con maggiori risorse finanziarie, le peggiori penalizzate. Devo confessare che, pur credendo fermamente nell’importanza della valutazione dell’attività degli Atenei per riconoscerne qualità, eccellenze, spinte propulsive culturali economiche e sociali, resto sempre più perplessa dalla modalità della costruzione delle classifiche come quelle attuali, improntate ad una visione tutta autarchica dei valori e autoriproduttiva dei privilegi, con indicatori quasi tutti interni al sistema: numero medio dei docenti, idonei con borsa di studio, immatricolazioni fuori dalle regioni di origine, crediti in stage, crediti all’estero, immatricolati iscritti al secondo anno, studenti in cerca di lavoro a un anno dal titolo, valutazioni Anvur sui prodotti di ricerca, attrazione di risorse per progetti di ricerca, giudizi Anvur sull’alta formazione, giudizio dei laureandi sui corsi di studio. Secondo tali criteri è assolutamente conseguente che le Università dei territori più attrattivi, oggi destinatari della gran parte degli investimenti pubblici, con più risorse private e più possibilità di sbocchi lavorativi, occupino le prime posizioni. E’ altrettanto conseguente che, al contrario siano meno attrattivi e offrano meno opportunità gli Atenei che nella posizione opposta riguardo ai contesti territoriali. Moltissimi giovani del Sud da decenni abbandonano i loro Atenei non perché peggiori, ma perché alla ricerca di maggiori opportunità. Inoltre, le classifiche di sintesi dicono pochissimo sulla diversa qualità di singoli dipartimenti, insegnamenti, ricerche e attività didattiche, spessissimo ancora eccellenti in tutti gli Atenei di tutte le regioni italiane. Ma possiamo accontentarci di questo generico commento? Come l’Italia intera, l’Università italiana ha subìto negli ultimi decenni un gravissimo declino di progettualità, di organizzazione, di funzione, complici le riforme ministeriali approvate dalla gran parte dei docenti, e con gravissimo danno per gli studenti. Ancor più che le classifiche di oggi, sono significativi i dati sull’abbandono delle Università, giudicate da moltissimi giovani inutili per la collocazione nelle attività lavorative, in un mercato che ne ha mortificato i titoli acquisiti, ma ne ha frustrato anche il piacere del sapere e le aspettative verso il futuro. I giovani laureati e disoccupati, più fortemente al Sud che al Centro-Nord, chiedono oggi alla politica universitaria di guardare alla sostanza. Mentre gli incentivi alla permanenza nelle università restano soprattutto ancora quantitativi (spesso i docenti promuovono proprio per guadagnarsi i finanziamenti), i giovani in fuga dallo studio, assai più dal Sud ma anche dal resto del Paese, chiedono alla politica universitaria di uscire dal narcisismo inutile del finto merito e di ridare alla ricerca, alla didattica, al rispetto degli studenti, alle relazioni tra innovazione e territori, il ruolo imprescindibile che ad essi compete, soprattutto in considerazione delle difficili sfide di oggi. Il demone dell’insidia cova peraltro nelle stesse classifiche: Verona è al vertice della graduatoria generale, ma è tra le peggiori a giudizio dei laureandi sulla qualità dei corsi di studio! *Professore ordinario senior all’Università di Roma La Sapienza

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