«Sull’onda dell’entusiasmo – notò amaramente un commento della Direzione del nostro giornale – ci eravamo illusi. Invece di un confronto di calcio siamo oggi costretti a raccontare la battaglia scatenata da delinquenti, il dramma della gente coinvolta, la tragedia della morte di un servitore dello Stato».
Un dato fu colto immediatamente dai mezzi d’informazione e dall’opinione pubblica: il calcio e, in particolare, il tifo negli stadi, stavano diventando il terreno privilegiato d’azione del teppismo sociale. Non sorprende, quindi, che all’inizio il dibattito sui fatti del “Massimino” si sia concentrato prevalentemente sui temi dell’ordine pubblico: sulle punizioni rigorose da infliggere, secondo il modello inglese, ai teppisti; sulle misure di sicurezza, anche strutturali, da imporre agli stadi; sulla opportunità o meno di fermare (per alcuni turni o per un anno intero) il campionato. Biagio Antonacci cantò: «Caro ispettore, con te se ne va il calcio. Con te se ne va l’impresa, il passaggio, il gol».
Il dibattito su questi temi ha avuto ampi sviluppi e ha portato a misure di ordine pubblico rigidissime come il “Daspo preventivo” che vieta gli stadi ai facinorosi, o il giudizio direttissimo allargato anche a chi va alla partita in possesso di razzi e materiale pirotecnico, o la possibilità concessa alle forze dell’ordine di arrestare in flagranza di reato differita di 48 ore chi in occasione di manifestazioni sportive sia stato individuato, attraverso video e foto, come autore di reati contro persone o cose.
Col passare delle ore e dei giorni, tuttavia, comprendemmo che quel malessere scoppiato in maniera tragica a Catania sullo spunto di una partita di calcio non riguardava solo le bande organizzate dei tifosi, non era semplicemente un tema di ordine pubblico. Quel malessere era il segno di un più ampio disagio giovanile che covava da tempo nel nostro Paese. Un editoriale su “La Sicilia” del 4 febbraio 2007 notava, per esempio: «C’è un’onda di criminalità micro e macro che le istituzioni hanno sottovalutato. (…) Aggiungiamo che c’è una gioventù insofferente all’ordine, alle regole di una vita sociale corretta, dove il nemico è lo Stato e chiunque lo rappresenti».
L’arcivescovo di Catania, Salvatore Gristina, proprio il 4 febbraio di quell’anno, in un commento per “La Sicilia” introdusse un altro elemento utile a comprendere meglio quanto stava accadendo. «Quella di venerdì [2 febbraio ] – scrisse il presule – è stata una guerra per il nulla, frutto di un vuoto di valori».
Il momento in cui era accaduta la tragedia – il periodo della Festa di Sant’Agata – apriva un’altra questione scottante: era possibile far festa negli stessi giorni in cui si piangeva un agente ucciso?
Il sangue versato il 2 febbraio non cadde solo sul calcio, ma anche sulla festa. Ci fu chi, come Pippo Baudo, chiese dal pulpito televisivo che i festeggiamenti venissero del tutto sospesi in segno di lutto. La decisione che le autorità ecclesiastiche e civili presero, tuttavia, fu diversa: «La festa si farà, ma sarà purificata: niente spari, niente folklore». Inoltre, festa liturgica di S. Agata e funerale dell’ispettore Filippo Raciti vennero unificati.
A Catania il 5 febbraio del 2007 gioia e dolore si fusero. La festa del calcio si sciolse in lutto, in una presa d’atto dell’esistenza di sacche di degrado che potevano inquinare tutta la vita sociale. Ma anche l’altra festa, quella della città per la sua santa, si dovette purificare: niente spari o luminarie. Solo il fercolo della Santa in giro per i quartieri a offrire un’occasione di speranza. Fu una circostanza particolarissima. In quella commistione di tragedia e festa era come se il popolo chiedesse alla patrona le ragioni di tanto male e i motivi per continuare a guardare al futuro con fiducia e per impegnarsi in un cambiamento del clima sociale. Agata, d’altronde, aveva vissuto sulla propria pelle l’ingiustizia fino al martirio. Ma ne era uscita vittoriosa.
In quella circostanza la patrona Agata e l’ispettore Filippo Raciti, agli occhi del popolo, furono accomunati dal fatto di essere usciti dalla scena del mondo apparentemente perdenti. Eppure, difendendo fino alla morte la loro dignità avevano dato scacco ai loro carnefici.
Il connubio festa religiosa-funerale aiutò a capire che la “ribellione del nulla” che aveva insanguinato Catania si poteva sconfiggere solo attingendo ad ideali presenti nella vita di persone concrete.
In quei giorni si dimostrarono potentemente vere alcune riflessioni di Italo Calvino a proposito dell’inferno in cui siamo spesso costretti a vivere. Sosteneva lo scrittore che ci sono due modi per non soffrirne. «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». L’arcivescovo di Catania, in quei giorni, confidò che anche quelle parole di Calvino lo avevano aiutato a prendere la decisione di non sospendere la festa religiosa di S. Agata. Proprio in quei giorni c’era bisogno di indicare persone e fatti “che inferno non sono”.