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«Aggrappati ai morti per non finire a fondo»

«Aggrappati ai morti per non finire a fondo»

Di Matteo Guidelli |

CATANIA – Attaccati ai morti per restare vivi. I corpi dei compagni di viaggio trasformati in salvagente. Le ultime forze spese per lanciare un urlo nella notte, prima che l’acqua ti invada i polmoni e ti porti a fondo. Il racconto dei 28 sopravvissuti all’ecatombe al largo della Libia è un concentrato di orrore, disperazione, tristezza, rabbia. Un inferno che l’Europa culla della democrazia e del diritto dovrebbe cancellare per sempre dal suo cuore: perché è nel Mediterraneo che l’Europa è nata ed è nel Mediterraneo che, se non cambiano le cose, potrebbero davvero affogare i valori dell’Ue. “Ci siamo aggrappati ai morti, abbiamo sentito il rumore dei motori e abbiamo urlato con tutte le forze che ci rimanevano” hanno raccontato gli ultimi due naufraghi salvati. Poi i soccorritori hanno tirato su soltanto cadaveri. E una sorta di diario di bordo: un quaderno con nomi e cifre accanto che ora gli investigatori esamineranno per cercare di risalire ai responsabili di questo omicidio di massa.

Il racconto dei due sopravvissuti è stato confermato dagli uomini della Guardia Costiera e del Cisom, il Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, che erano a bordo dei gommoni. “Siamo arrivati nella zona del naufragio attorno alle due di notte – ha spiegato il comandante di Nave Gregoretti Gianluigi Bove – del barcone non c’era più alcuna traccia, tranne alcuni detriti e chiazze di nafta. Siamo riusciti a recuperare due naufraghi, mentre altri 26 erano già a bordo della nave portoghese”. Il King Jacob era arrivato un paio d’ore prima.

Quando dalla nave della Guardia Costiera hanno calato i gommoni non si vedeva a 10 metri di distanza. “Ho visto la gente in mare che gridava – racconta ancora Bove – abbiamo fatto di tutto per salvarli, ma non ce l’abbiamo fatta. E questa tristezza nessuno me la leverà mai”. Chi era su quei gommoni la racconta così: “Era buio pesto. Siamo andati in mare per recuperare i cadaveri, non pensavamo di trovare ancora persone vive. Ed invece abbiamo sentito delle urla. Quando ci siamo avvicinati abbiamo recuperato due uomini che si erano aggrappati ai morti per cercare di rimanere a galla. Urlavano con le ultime forze che gli erano rimaste. Erano allo stremo, siamo riusciti a issarli a bordo, ma non avrebbero resistito per molto”.

Tutti gli altri sono andati a fondo. Ormai è chiaro. Nessuno più spera. Ufficialmente le ricerche sono ancora in corso: ma è un modo di dire. Pura formalità. Piuttosto, quello che tutti si augurano e che, dopo 48 ore, dal mare comincino a riemergere almeno i cadaveri di quelli che erano sul ponte. Perché tutti gli altri non torneranno mai più, a meno che non si decida di tirare su il barcone o andarli a prendere fin laggiù. Settecento? Novecento? Nessuno lo saprà mai davvero. E anche i racconti dei superstiti non consentono di avere certezze perché nessuno di loro è davvero in grado di dire quanti disperati i trafficanti hanno stipato alla partenza.

Quel che invece è certo è che quel barcone maledetto era come l’inferno di Dante, diviso in gironi. “Il peschereccio aveva tre livelli – ha raccontato il giovane sopravvissuto del Bangladesh che ieri è stato trasferito all’ospedale di Catania – Quello più basso era la stiva e centinaia di persone sono state costrette ad entrare li dentro. Poi i trafficanti hanno chiuso i boccaporti, per evitare che uscissero durante la navigazione”. Il secondo livello era invece quello della piccola cabina che c’è in coperta, all’altezza della murata del barcone. “Anche qui erano stipate centinaia di persone”. Infine quelli sul ponte, i più fortunati: i sopravvissuti erano tutti qui. “Si capisce chiaramente – dice il procuratore di Catania Giovanni Salvi – che la maggior parte di loro non avrebbe potuto salvarsi”. No, non avevano speranza.

Sul ponte di nave Gregoretti i vivi stanno accanto ai morti: distesi gli uni e distesi gli altri; lo sguardo verso il niente e un dolore troppo grande da spiegare a sinistra; sacchi neri e bianchi con la scritta ‘body’ e un numero a destra. I morti, quando la nave arriva a Malta, li portano via in una lenta processione, con i marinai che si portano la mano al cappello come si fa quando c’è da salutare un superiore. Per tutto il giorno, gli abitanti sono andati in pellegrinaggio all’obitorio, chi portando un fiore chi lasciando un pensiero su un foglio di carta.

Ci sono anche i vivi su nave Gregoretti, dieci metri più in là. Stanno sul ponte uno vicino all’altro come se fossero ancora sul barcone. O forse soltanto per farsi un pò di coraggio. Alcuni sono a piedi nudi, altri indossano le tute cerate che l’equipaggio gli ha dato; uno dei più giovani è steso a pancia in giù, indossa dei guanti di lattice e non guarda i cadaveri lasciare la nave: il suo è uno sguardo dolce, innocente e pieno di tristezza. Tra loro c’è pure qualcuno che ha dei pantaloni arancioni che sembrano quelli dei prigionieri di Guantanamo e pensi che no, meglio scacciare l’immagine perché di orrore ce n’è già abbastanza. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA