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Il racconto

«Vi racconto le mie tre volte al pronto soccorso di Agrigento»

Al San Giovanni di Dio l’area di emergenza resta sempre sotto stress Manca il personale è vero, ma ci sono tante grandi e piccole cose che non vanno

Di Fabio Russello |

«Buonasera, mio padre ha un problema». Quello che leggerete è il racconto di tre “capatine” al pronto soccorso del San Giovanni di Dio di Agrigento. Leggerete solo quello che ho visto, quello che ho sentito e quello che ho fatto. Non ci sarà nessuna accusa ai medici dai quali ho ricevuto l’assistenza che mi aspettavo e ovviamente nessuna valutazione sulle diagnosi e sulle terapie: non sono un medico, non posso discutere né di diagnosi né di terapie.

Il racconto

Ed eccolo qui il racconto. Se hai a che fare con una persona anziana – come mio padre che di anni ne ha quasi 90 – è evidente che il ricorso al pronto soccorso è pieno di paure, di speranze, di preoccupazioni. Quindi si arriva in auto davanti l’ingresso del pronto soccorso e devi fermarti per farlo scendere. La corsia è unica a causa delle auto in sosta a sinistra e spesso anche a destra. L’operazione dura almeno – se va bene – due minuti. Sperando che dietro non arrivi una ambulanza con un codice rosso che, ovviamente, avrebbe la precedenza persino su mio padre. L’ambulanza dietro per fortuna non c’è. Scende mio padre e deve attendere in piedi, perché io comunque l’automobile la devo spostare. Lascio mio padre. All’ingresso del pronto soccorso stazionano un paio di cani randagi. Gli animalisti diranno: «Ma che ci fa? Non sono aggressivi». Vero. Ma i cani randagi dentro l’area di un ospedale non devono starci, tanto più se si tratta dell’ingresso di un pronto soccorso. A sinistra c’è anche un cantiere transennato da chissà quanti anni. Degrado diffuso e la immancabile “lapazza” color arancione Anas.

Il triage

Parcheggio la macchina e vado a riprendere mio padre che non sarà codice rosso ma è comunque molto sofferente. Non c’è una sedia a rotelle. Non c’è nulla. La prima accoglienza è dunque al triage. Il triage – per quei pochi che non lo sanno – è il primo impatto con il pronto soccorso: è qui che stabiliscono qual è la priorità del malessere per il quale ti rivolgi all’ospedale. Sono gentilissimi e molto carini. La prima volta ci spediscono subito per una consulenza nel reparto adeguato ai problemi di mio padre. Ci andiamo a piedi. Non ci sono sedie a rotelle, nessuno ha chiesto se ne servisse una per arrivare fino al reparto che è distante almeno duecento metri dentro il labirinto che è il San Giovanni di Dio. Arriviamo al reparto. Mio padre ha urgenza di andare in bagno. Ce ne sono due nell’ambulatorio. Uno è guasto. L’altro no, ma manca la carta. L’ho recuperata grazie ad un mio amico medico del pronto soccorso che mi ha dato un rotolone. E se fosse stata una persona senza alcuna conoscenza come avrebbe fatto?Tutto comunque si svolge in un’ora e mezza e siamo subito a casa.

La porta bianca e l’approssimazione

La seconda volta è più complessa. Mio padre dopo cinque giorni ha accusato altri problemi simili a quelli della prima volta. Stavolta, vista l’ora tarda, il medico non c’è, quindi tutto si svolge al pronto soccorso vero e proprio. Essendo un codice non rosso è subito apparso evidente che l’attesa sarebbe stata piuttosto lunga. Ci sta. Anche se mio padre ha 90 anni. Ma non discuto i criteri adottati da chi fa quel mestiere. I metronotte all’ingresso sono gentilissimi e hanno una parola di conforto per tutti. Soprattutto per chi mostra insofferenza per le lunghe attese. Sono loro – è un segno di gentilezza ma anche di approssimazione – a far da “mediatori” con chi sta dall’altra parte della porta: «Ora ci parlu iu, ora la chiamanu, stassi tranquillu». C’è trambusto per un Tso. I medici non hanno i riferimenti telefonici dei vigili urbani. Mi offro per dare loro una mano e tramite alcuni miei amici riesco a metterli in contatto – tramite un cellulare di riferimento – con i vigili urbani reperibili sbloccando la situazione. Nel frattempo al pronto soccorso, in barba alla privacy, ogni tanto si apre il portone bianco e c’è qualcuno che urla un cognome: «Messinaaaaaaa, c’è Messinaaaaaa?». Al triage ti danno un braccialetto con un numero e su un monitor, in teoria, dovrebbe apparire il numero associato al turno col quale si sarà assistiti. Il monitor però non lo guarda nessuno e quindi: «Messinaaaaaaa, c’è Messinaaaaa?». Gridano i metronotte o l’infermiere sollecitato presumo dal medico.A tarda sera finalmente, con mio padre esausto in una sala di attesa con le sedie da stazione ferroviaria e non certo da ospedale, riusciamo a varcare la soglia della porta bianca che divide il mondo di qua con il mondo di là, quello del pronto soccorso vero e proprio: «Russelloooooooo». Risolvono il problema di mio padre, mi rassicurano e mi chiedono di tornare il giorno dopo per andare direttamente in reparto dove mio padre sarà visitato dallo specialista: «Alle 8,30 passi dal triage e poi direttamente al reparto». I medici – e il personale – sono stanchissimi e stressati. Ma mantengono sempre – almeno con me – un tono calmo, rassicurante e gentile. Rispondono con pazienza anche alle domande che ogni paziente formula e che magari al medico suonano come banali. Ma rispondono sempre, anche alle domande banali.

La terza visita

L’indomani dunque ritorniamo. Niente sedie a rotelle e un operatore della Croce Rossa ci indica con solerzia e gentilezza la strada stavolta ancora più lunga rispetto alla prima volta. Una specie di Virgilio che ci fa da guida tra i gironi dell’Inferno dantesco. «E chi ci vo fari? Pacenzia», mi rincuora, mio padre. Delle otto sedie della sala d’attesa del reparto, quattro sono inutilizzabili perché non più fissate alla parete e delle altre quattro di una è rimasto solo il sostegno. Complessivamente solo tre sedie. I medici erano due, uno dei quali spesso chiamato in sala operatoria e l’altro è rassicurante soprattutto con gli anziani (la patologia di mio padre è tipica di chi è avanti con l’età). Nel bagno – l’unico che ancora funziona – c’è ancora il rimasuglio del rotolone che io avevo portato lì qualche giorno prima grazie a quel mio amico medico. Aspettiamo il nostro turno. Fuori ci sono pazienti che avevano appuntamento per quel giorno. Ma una infermiera cerca di spiegare loro che se ne riparla tra due giorni. L’avviso del rinvio è scritto su un muro. «Ma non potevano telefonare ai pazienti?» è la legittima rimostranza di uno degli uomini delusi dalla vana attesa. Come dargli torto?

Il caposala senza camice e in tenuta balneare

Nel frattempo mi si scarica il cellulare. Nella sala c’è una presa elettrica. Vedo una infermiera e chiedo il permesso di attaccare il caricabatteria: «Certo, non c’è problema». E invece il problema c’è: arriva uno in tenuta – letteralmente – balneare (T-shirt e pantaloni molto estivi, senza né divisa né camice) che dice di essere il caposala: «Sono io il caposala, non puoi attaccare la spina».Risolviamo tutto verso mezzogiorno. Tutto è bene quel che finisce bene almeno per mio padre. Ma sul resto…COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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