Lampedusa, eroi e antieroi nell’isola dell’accoglienza

Di Salvatore Scalia / 31 Ottobre 2016

“Crede che ci sia un modo per fermare le migrazioni?”

“Risponda prima a me: si possono fermare le guerre?”

“Impossibile, si combattono per i soldi.”

“Lei ha risposto per me.”

Questo è il dialoghetto filosofico tra un eroe per caso e una scrittrice belga a Lampedusa, paradiso turistico e crocevia di lingue, etnie e culture; approdo di esuli in fuga da violenza, fame e persecuzioni. Cuore del Mediterraneo da cui si può tracciare una mappa internazionale, dall’Asia all’Africa, della sofferenza e dell’ipocrisia del mondo, con l’amara consapevolezza che sui drammi si costruiscono fortune e carriere.

L’analisi di Vito Fiorino è spietata: “Si creano le crisi, si ammazza, si distrugge, si sfrutta e ci si arricchisce su chi chiede aiuto.”

Il medico Pietro Bartolo s’ispira al buonsenso: “Il flusso di migranti è inarrestabile. Invece di spendere dozzine di milioni di euro per navi, aerei, elicotteri, droni, e di pagare centinaia di militari e poliziotti, basterebbe concedere il diritto d’asilo, evitando stragi inutili e ridando nuova linfa all’Europa.”

Appena arrivi ti raccontano la storiella dei migranti che, ignari di geografia, cercano la stazione ferroviaria. Il racconto inverosimile cela due verità: il razzismo latente verso l’alterità, e l’isola considerata tappa di transito per il Nord Europa. Da ciò il rifiuto, sfociato spesso in rivolta, di rilasciare le impronte digitali, in quanto il trattato di Dublino impone che si resti nella nazione in cui si è identificati.

Mentre in Ungheria s’innalzano muri, Lampedusa nell’immaginario contemporaneo è divenuta l’isola dell’accoglienza. A Punta Cavallo Bianco, rivolta verso la Libia, la Porta dell’Europa, scultura di Mimmo Paladino, è il simbolo del Continente che si apre ai popoli. L’opera è del 2008, ma prima che il messaggio divenisse operante nelle menti sono dovuti scorrere anni. Dalle sassaiole contro gli invasori tunisini nel 2011 si è passati all’epopea dei buoni sentimenti, i cui eroi sono Bartolo e la sindaca Giusi Nicolini. Il primo ispiratore e protagonista del film di Francesco Rosi Fuocoammare, l’altra il volto materno e dolente dell’accoglienza.

Il documentario, vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino, ora concorre all’Oscar. Il medico, in collaborazione con Lidia Tilotta e la supervisione del figlio Giacomo, ha anche scritto un libro autobiografico, Lacrime di sale, edito da Mondadori. Così la scorta dei buoni sentimenti è completa.

La svolta a Lampedusa ha avuto un impulso dall’esterno, con la visita di papa Francesco nel luglio 2013 e il discorso contro la “globalizzazione dell’indifferenza.” La strage del successivo 3 ottobre, con 368 morti, non concesse più alibi alle coscienze, e, a superare resistenze residue, furono stanziati dal governo Letta venti milioni di euro. Fu varata inoltre l’operazione di salvataggio Mare nostrum, a cui è seguita Triton Frontex a guida europea.

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A Lampedusa la conversione non impedì che a dicembre 2013 scoppiasse al Centro d’accoglienza lo scandalo dei migranti costretti a denudarsi all’aperto e irrorati con docce gelate anti scabbia. Scene, disse la Nicolini, “da campo di concentramento.”

Pietro Bartolo, 57 anni, il giorno in cui l’abbiamo incontrato appariva spossato, ma più che dagli sbarchi, dall’assedio dei giornalisti: noi, il Washington Post, Der Spiegel, Vanity Fair. Nominato cavaliere da Mattarella, è l’uomo più premiato d’Italia. Il riconoscimento a cui tiene di più è il Vieira De Mello, consegnatogli a Cracovia un anno fa. Durante la conferenza stampa per Fuocoammare a Berlino, come in una perfetta sceneggiatura, squillò il telefono, sicché fece ascoltare in diretta l’annuncio di uno sbarco e la convocazione sul molo Favaloro.

Parla col cuore in mano, grato alla Madonna di Porto Salvo che gli dà la forza di resistere. In venticinque anni ha visto di tutto: bambini morti e salvati, donne stuprate che vogliono essere liberate dalla vergogna e dal frutto della violenza, orrende mutilazioni, piaghe, sevizie e torture. Qualche gioia come l’aver fatto nascere una bambina, Gift (Dono), l’aiuta a vincere la nausea e l’insonnia per tanto strazio di corpi e anime.

Ha visitato trecentomila migranti: prostrati, affamati, disidratati, congelati. Non ha riscontrato malattie contagiose. Le donne, viaggiando nel fondo dei gommoni, arrivano con gravissime ustioni provocate dalla benzina che si mescola all’acqua di mare. “Mentre si corrode la pelle, provano un senso di sollievo per il calore del carburante.” Molti hanno la scabbia e, per il prurito, si grattano fino a procurarsi profonde piaghe. Racconta di due fratelli, di cui uno, che non poteva camminare, portato sulle spalle dall’altro attraverso il deserto dalla Somalia alla Libia.

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Ambientalista, eletta nel 2012 per pochi voti, Giusi Nicolini, reduce al seguito di Renzi dalla cena con Obama, è anche lei ricercatissima. Nel via vai mondano umanitario, l’ex sindaco De Rubeis, che ha definito i tunisini delinquenti ed è stato condannato per tangenti, si era fatto fotografare con Angelina Joli; la sindaca, che si era risentita per aver perso l’occasione hollywoodiana di una foto con Richard Gere, si è presa la rivincita approdando alla Casa Bianca.

L’oltranzismo di Angela Maraventano, senatrice della Lega dal 2008 al 2013 e aspirante sindaca, è passato di moda. Nessuno più la cerca, ma non rinuncia a guastare il quadretto idillico: “Il medico e la Nicolini sono buonisti di professione. L’uno tocca pance e guarda mani, l’altra non è neanche ambientalista.”

Poco distante dalla Porta d’Europa, ci mostra un guasto al depuratore, che scarica liquami in mare, ed esclama: “La Nicolini alla Casa Bianca e Lampedusa nella melma!”

La sindaca non l’abbiamo potuta incontrare perché, come ha riferito la segretaria, aveva un’emergenza in corso nell’Ufficio ragioneria. Anche se, come dice Paolo Monaco comandante della Guardia costiera, “in mare lo straordinario è divenuto ordinario,” nell’isola l’emergenza è parola abusata. I migranti sono chiusi nel Centro d’accoglienza, ogni tanto se ne vede qualcuno a passeggio per le vie, i turisti si godono sole e mare nelle spiagge dell’Isola dei Conigli e della Guitgia, la sera nei bar di via Roma echeggia la musica; ristoranti e alberghi ospitano gli ultimi clienti prima della chiusura invernale.

La mite signora Rosina ricorda che furono di paura i giorni della Primavera araba nel 2011, quando sbarcarono i tunisini. “Quella – precisa Francesca Del Volgo del collettivo Askavusa – fu vera emergenza ma creata ad arte dal ministro dell’Interno Maroni, che lasciò per tre mesi diecimila profughi in un’isola di cinquemila abitanti e di venti chilometri quadrati.”

Il molo Favaloro è il primo impatto dei migranti con l’Europa. Ad accoglierli quattro tettoie e nient’altro. Su due barche attraccate restano tracce della traversata: indumenti, bottiglie di plastica, scarpe. È un piccolo campionario di quanto è stato raccolto nel museo di Porto M: bussole, bottiglie e lettere in bottiglia, libri di preghiera, pentole, giubbotti di salvataggio, jeans, buste di latte, biberon, caffettani, scialli, oggetti che nella loro semplicità quotidiana assumono la potenza evocativa dell’esodo.

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Dal molo al Centro d’accoglienza, in contrada Imbriacola, la strada è breve. Poco prima di arrivare, un grande edificio fatiscente in cemento testimonia lo spreco di una piscina mai completata. Un cancello sbarra l’ingresso al Centro, gestito dalla Croce Rossa e dalla Misericordia calabrese di Isola Capo Rizzuto. In fondo, un padiglione, annerito dal fumo e deserto, mostra i segni dell’ultima rivolta. Nella recinzione c’è un buco che nessuno chiude, perché una passeggiata all’esterno aiuta ad allentare la tensione.

“Io – dice Francesca Del Volgo – quest’isola super accogliente non la vedo. C’è chi tollera e chi no, si fanno gesti di carità ma se vedono un migrante sulle spiagge protestano con il prefetto di Agrigento. Li vogliono chiusi in quello che io chiamo il Centro di detenzione. Il modello Lampedusa non sono riuscita a capirlo. Si è fondata un’economia sulla costruzione delle frontiere e la militarizzazione dell’isola, avamposto nel Mediterraneo pieno di radar che provocano inquinamento elettromagnetico.”

La favola però resiste a ogni evidenza. A luglio il presidente del Senato Pietro Grasso ha esaltato il Centro di accoglienza come modello per l’Europa, ignorando un rapporto negativo della Commissione Diritti umani del Senato. Alle visite importanti corrisponde la spettacolarizzazione degli sbarchi: raccontano che una nave ha dovuto ritardare per cinque ore in mare in attesa di un politico. Capita anche che si facciano ripetere gli sbarchi, perché le riprese televisive non sono venute bene.

Il tenente di vascello Paolo Monaco, catanese giovane e volitivo, è dal 2015 il comandante della Guardia costiera, un’ottantina di uomini e sette motovedette. Riassume la contabilità dei morti, tremila su 130 mila, e commenta: “C’è chi si fa pubblicità e chi si tuffa in mare per salvare i disperati.”

Descrive l’affinamento delle tecniche di salvataggio, l’invenzione di un materassino su cui adagiare i naufraghi; spiega che le navi di Frontex, pattugliando a trenta miglia dalla costa libica, paradossalmente accrescono i profitti dei trafficanti che, invece di utilizzare vecchi barconi, si sono convertiti ai più economici gommoni, con unica camera d’aria, di fabbricazione egiziana.

“Dalle tavole di legno del fondo, inzuppate d’acqua, si staccano schegge che li bucano. I migranti lo sanno, eppure preferiscono rischiare la vita piuttosto che aspettare una morte sicura a casa loro.”

I trafficanti restano in Libia. Fornito di bussola cinese e di satellitare Thuraya, fabbricato negli Emirati Arabi, dopo avere percorso una ventina di miglia, un passeggero ha l’incarico di chiamare la Guardia costiera e di gettare in mare il telefono per non lasciare tracce. Ricevuto l’allarme, si avverte la Libia che non risponde.

“Allora il dovere morale e la legge del mare impongono di intervenire.”

Pino Fragapane invece sintetizza il dilemma dei pescatori: “Se obbediamo alla coscienza rischiamo il sequestro della barca.”

Cantautore e ristoratore, Antoine Michel, nome d’arte di Tony Costanza, considera “spaccio di carne umana” sia il traffico di migranti sia l’affare dei 35 euro a persona dati ai gestori dei centri d’accoglienza. Nato nel 1957, è un modello di contaminazione di culture. Cresciuto in Tunisia ai tempi in cui i lampedusani emigravano a Sfax, Sousse, Mahdia e La Goletta, si è trasferito in Francia e dal 1982 è tornato nell’isola delle origini. Lunghi capelli bianchi, accento lievemente nasale, sa miscelare sfumature e tonalità, sia nei sapori della cucina sia in un linguaggio inventato, che evoca memorie ancestrali e si traduce in pura sonorità mediterranea. Sua è la canzone Sharabià, sigla della trasmissione televisiva Alle falde del Kilimangiaro.

Lampedusa ha 6581 abitanti compresi i 400 di Linosa. Il comune ha 39 impiegati, più 25 precari di cui 6 a Linosa. I pescatori sono circa 270, gli addetti alle attività produttive oltre mille, ci sono 63 tra bar e ristoranti, circa 2070 posti letto, 84 strutture ricettive, 154 negozi. I numeri registrano un lieve incremento demografico e una spiccata vocazione turistica. L’invasione ad agosto di circa ventimila turisti, c’è chi parla di trentamila, è stata accolta con soddisfazione, nonostante l’emergenza della spazzatura, affidata a ben tre ditte, e delle condutture dell’acqua insufficienti a dispetto dei nove milioni spesi per il dissalatore.

Gli universitari studiano a Palermo, Catania e Malta. Comunità di lampedusani sono sparse ad Anzio, Rimini e San Benedetto del Tronto.

La mancanza di un ospedale crea disagi. “Per due diverse operazioni – racconta la signora Rosina – sono dovuta andare a Palermo. Qui ci si può ammalare a giorni prestabiliti.”

Nella sede dell’Area marina protetta, Fabio Giardina illustra l’attività di controllo sulla posidonia, di protezione delle tartarughe caretta, e denuncia i predoni della pesca sportiva: “Superano almeno di dieci volte il massimo di 5 chili consentiti dalla legge.”

Pino Fragapane si lamenta dell’invadenza e dell’impunità dei pescherecci tunisini. Ha girato il mondo tra pescherecci e petroliere della Texaco.

“Ho fatto il militare a Pordenone, nella cartina geografica dei treni Lampedusa non c’era.”

L’isola infatti comincia ad esistere con i due missili lanciati da Gheddafi dopo l’attacco americano in Libia. Gli ordigni nessuno li ha visti né sono state trovate tracce.

Questo lembo di terra custodisce un’odissea infinita.

La notte del 3 ottobre 2013 Vito Fiorino con sette amici aveva cenato in barca alla cala della Tabaccara. Decisero di attendere l’alba per pescare palamiti. Verso le sei fu svegliato dal motore acceso e subito spento da Alessandro.

“Che succede?”

“Sento vociare.”

“Sono gabbiani.”

Rimisero in moto, dopo pochi metri, alle 6,30 si trovarono in una bolgia infernale di uomini, donne e bambini, che, da tre ore in acqua, invocavano aiuto. Cominciarono a tirarli su, dei 155 sopravvissuti ne salvarono 47. Vito non si è mai liberato dall’incubo di quella notte, di urla disperate, di sguardi atterriti, di genitori che cercavano figli inghiottiti dalle onde, di vivi che reggevano i morti, di mani aggrappate alle bottiglie di plastica, di corpi unti d’olio che scivolavano tra le dita.

Capelli bianchi, codino, occhiali, ha l’aria del sentimentale che ha cercato nell’isola la pace interiore. Di origini pugliesi, faceva il falegname a Milano, approntava stand dell’Eni in giro per il mondo, dal 2012 gestisce con la figlia una gelateria.

Rimpiange di non averne salvati di più. Amareggiato per il ritardo delle motovedette, racconta che gli volevano estorcere una dichiarazione in cui gli si faceva dire di aver lanciato l’allarme venti minuti più tardi. I giudici indagano per omissione di soccorso.

Un anno dopo s’indignò per lo spettacolo della commemorazione. “Non ho nulla contro Fiorella Mannoia, ma il silenzio è il modo più opportuno di ricordare i morti.”

Antieroe schivo, gli ripugnano i politici che cavalcano il dolore: “La sindaca, la paladina del mondo, non mi hai degnato di uno sguardo.”

Francesco Solina racconta che, avendo accompagnato in barca una famigliola di turisti a osservare i giochi dei delfini, intravide a pelo d’acqua una sagoma. Da vicino, si rivelò un corpo gonfio, privo di testa e degli arti, troncati forse dagli squali.

“La mamma con la mano coprì gli occhi della bambina.”

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Redazione
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