La Procura di Agrigento, con un ricorso firmato dal procuratore della Repubblica Luigi Patronaggio, del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dei sostituti procuratore Alessandro Macaluso e Carlo Cinque hanno presentato un ricorso in Cassazione per annullare il provvedimento del Tribunale del Riesame di Palermo che aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’avvocato Giuseppe Arnone, l’ex presidente regionale di Legambiente e più volte candidato a sindaco di Agrigento accusato di estorsione dei confronti di un altro avvocato, Francesca Picone.
La vicenda si inquadra nell’ambito delle procedure per far ottenere ad una famiglia agrigentina con persone disabili le indennità previste dalla legge. Anche la Picone, che assisteva in un primo tempo la famiglia, è sotto processo perché secondo l’accusa si sarebbe appropriata dei soldi che invece erano destinati alla famiglia. Arnone invece secondo l’accusa mediante reiterate minacce, avrebbe costretto la Picone a stipulare un atto di accordo in virtù del quale quest’ultima consegnava 14 mila euro con due assegni bancari con beneficiario proprio Giuseppe Arnone, procurandosi in tal modo un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Secondo l’accusa Arnone avrebbe approfittato del timore manifestatogli dalla Picone su possibili ripercussioni personali e professionali che le sarebbero derivate dall’amplificazione mediatica di notizie relative al processo nel quale la stessa Picone risulta imputata.
Arnone infatti avrebbe prospettato alla vittima il pagamento di maggiori somme di denaro nel caso in cui non avesse stipulato l’atto di accordo e non avesse aderito alle sue richieste di denaro entro il termine perentorio assegnatole, le ha prospettato che sarebbe stato inviato un esposto al procuratore della Repubblica di Agrigento con il quale la donna sarebbe stata denunciata per associazione per delinquere finalizzata a commettere il delitto di estorsione, prospettava la pubblicazione di un dossier analogo a quello denominato “Sesso e malagiustizia” con protagonista la stessa Picone, l’inizio di una campagna mediatica finalizzata alla distruzione personale e professionale della Picone e una richiesta di modifica dell’imputazione al pubblico ministero nell’ambito del processo nel quale la Picone è imputata.
La Procura di Agrigento insomma insiste e ha chiesto alla Cassazione di annullare il provvedimento del Riesame che aveva accolto il ricorso di Arnone e lo aveva scarcerato. Secondo via Mazzini in questo caso Arnone ha agito con la finalità e con la consapevolezza di perseguire un fine (profitto) potenzialmente giusto, ma per raggiungere tale finalità utilizzi dei mezzi ingiusti volti ad annullare in assoluto la libertà di autodeterminazione della vittima. E sempre la Procura segnala alla Cassazione come Arnone fin dai primi contatti intrattenuti con la Picone e con i suoi difensori, abbia sempre agito con una continua e costante pressione psicologica che ha ossessionato in maniera parossistica la vittima giunta sino al punto di denunciare l’estorsione perché il modo di agire di Arnone è stato tutto incentrato su minacce di distruzione della reputazione privata e professionale della persona offesa Francesca Picone. E la Procura rilancia: le modalità con cui si è giunti alla stipula dell’atto di accordo nello studio della Picone non può essere una lecita trattativa tra due professionisti perché ci è levidente squilibrio di forza tra le parti e l’oggetto dell’accordo costituito dalla compravendita del silenzio mediatico dell’indagato.
Secondo i magistrati agrigentini il mandato conferito ad Arnone dalla famiglia con alcuni componenti portatori di handicap è stato utilizzato esclusivamente per il raggiungimento di scopi personali perché vi è infatti il pagamento di 14 mila euro in assegni bancari quale risarcimento del danno cui Giuseppe Arnone avrebbe avuto diritto per essere stato denunciato per truffa da Francesca Picone. Arnone – secondo la Procura – non patrocina i suoi clienti, bensì se stesso. Tanto é vero che gli assegni vengono emessi a suo nome, non trasferibili come impone la disciplina bancaria, e non a nome dei disabili che ad oggi nessuna somma di denaro ha ricevuto e riscosso. “In definitiva – scrivono i magistrati – agli atti vi è la prova che Giuseppe Arnone abbia agito ben oltre il mandato conferitogli dalla propria assistita, in realtà fuori da qualsiasi delega, piegandolo per proprio esclusivo tornaconto personale e facendone strumento per ricattare, a cagione del rancore personale nutrito verso la donna, la Picone”.
L’avvocato Arnone da parte sua ha sempre sostenuto la correttezza del suo operato ed ha aspramente criticato l’operato dei magistrati agrigentini