Adnkronos
Moda ‘usa e getta’, in discarica 6 milioni di tonnellate di abiti ogni anno
Costano poco, si usano una volta sola, quando va bene, per poi finire nel cassonetto dei rifiuti. E’ la cultura dell’usa e getta che ha contagiato il settore moda che registra dati enormi sullo spreco: ogni anno in Europa 6 milioni di tonnellate di abiti finiscono in discarica, l’equivalente di 11,3 kg a persona, con il tessile che rappresenta il quarto produttore di emissioni di gas serra, dopo cibo, edile e trasporti. Il dato arriva dalla Commissione Europea che ha annunciato una vera e propria stretta per le aziende: entro il 2030 infatti, gli operatori della moda dovranno produrre vestiti più resistenti e riciclabili. Tutti i prodotti tessili immessi sul mercato Ue dovranno essere durevoli, riparabili e riciclabili, per gran parte costituiti da fibre riciclate e prive di sostanze pericolose. Senza dimenticare il rispetto dei diritti sociali. Ma da dove arrivano questi 6 milioni di tonnellate di capi? “La maggior parte arriva dalla grande distribuzione del fashion, un modello di business legato all’utilizzo veloce o al non utilizzo. Si compra anche se non necessario perché il prezzo molto basso non fa pensare troppo al reale bisogno”. Lo afferma all’Adnkronos, Gaia Segattini, ideatrice di Gaia Segattini Knotwear, brand di maglieria che fa della sostenibilità il suo core business utilizzando solo fili di giacenza o rigenerati. E ad accendere i riflettori su una moda pulita, sicura, equa, trasparente e responsabile ci pensa la Fashion Revolution Week che anche quest’anno torna dal 18 al 24 aprile offrendo un’occasione di confronto sul tema dello spreco e dell’economia circolare. “E’ paradossale – continua Gaia – ma c’è proprio un tipo di business che funziona proprio sull’inquinamento”. C’è quindi un problema nelle abitudini di consumo dei capi che “hanno un ciclo di vita molto molto corto. Noi siamo pieni di prodotti nell’armadio che abbiamo utilizzato una sola volta o addirittura mai”. Uno spreco che, sottolinea Gaia, “riguarda soprattutto i più giovani che con il fiorire dei social network, prima YouTube e ora Tik tok, comprano i vestiti anche solo per fare un video. C’è una fusione dei tempi dove i ragazzi comprano anche solo per immagine e non per uscire con un capo nuovo”. Ad avere un occhio più critico verso questo tipo di consumo, invece ci pensano le donne dai 30-35 anni che hanno già un’indipendenza economica. E allora cosa si può fare? “Per prima cosa utilizzare quello che già c’è. Abbiamo tantissime materie prime che non vengono utilizzate in molti magazzini sia perché prodotte in eccesso sia perché molte aziende manifatturiere hanno chiuso. Attualmente abbiamo uno scarto tessile probabilmente utile per i prossimi 20 anni”. Lato consumatore, invece, aggiunge Gaia, “bisogna allungare il ciclo di vita dei capi, usandoli spesso e bene. Un tipo di parametro che non viene mai utilizzato per quanto riguarda l’impatto della sostenibilità di un capo è l’utilizzo che invece è molto importante”. Con il suo brand Gaia promuove la sostenibilità a 360 gradi e un approccio più critico ai consumi. Un impegno che l’ha portata a volere chiudere l’ecommerce durante il Black Friday per sostituere gli sconti con dei video racconti sui social per far conoscere, pezzo per pezzo, persona per persona, tutti i valori e collaboratori dell’impresa. Il potenziale del riuso e riciclo dei materiali è enorme e i dati del possibile impatto sull’occupazione parlano chiaro: secondo dati Ue, nascono 35 nuovi posti di lavoro ogni 1.000 tonnellate di tessile raccolto per riutilizzo o per vendita di seconda mano. “Se le aziende comprendono che lavorare con filati e materiali di giacenza responsabilizza anche i consumatori possiamo dar vita ad una vera e propria rivoluzione green – conclude Gaia. Abbiamo anche un compito educativo, soprattuto nell’era digitale che ci permette di parlare direttamente al nostro pubblico. Responsabilizzare noi stessi vuol dire responsabilizzare un intero mercato”.