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L’oncologia territoriale per essere più vicino alla casa del paziente, ma il territorio è pronto in tutte le regioni?

Di Redazione |

Roma, 22 novembre 2021 – In Italia ogni anno circa 270mila cittadini sono colpiti dal cancro, attualmente il 50% dei malati riesce a guarire, con o senza conseguenze invalidanti, dell’altro 50% una buona parte cronicizza, riuscendo a vivere più o meno a lungo. I risultati della ricerca sperimentale, i progressi della diagnostica, della chirurgia, i nuovi approcci di cura e i farmaci innovativi con schedule innovative di trattamento stanno portando ad una evoluzione positiva nel decorso della malattia, allungando la vita dei malati anche senza speranza di guarigione.

In questo scenario sono sorti nuovi problemi che riguardano la presa in carico di questa patologia complessa che comportano una revisione organizzativa, necessaria ai sistemi assistenziali per rispondere efficacemente, dando accesso rapido ed uniforme all’innovazione. Per questo aspetto e per un coerente utilizzo delle risorse disponibili, ancor più dopo l’esperienza della recente pandemia, il coordinamento tra centri Hub, Spoke e medicina territoriale, sta assumendo sempre maggiore importanza.

Per questo, oltre lo sviluppo delle reti di patologia che coinvolgono prevalentemente la medicina specialistica, già implementato in molte regioni, occorre oggi uno sforzo per formare la medicina Territoriale ad una cogestione dei pazienti oncologici cronici. Il futuro prossimo dell’Oncologia dovrà essere condiviso infatti tra ospedale e territorio attraverso una serie di setting assistenziali- ospedalieri e territoriali ma con uno stesso governo – che permetteranno di riscrivere al meglio tutto il percorso di cura del paziente, con molti nuovi temi da sviluppare.

Gianni Amunni, Direttore Rete Oncologica Toscana, Direttore Generale ISPRO, Regione Toscana ha messo in evidenza i numeri dell’oncologia.

“Oggi ci sono oltre 3.600.000 casi prevalenti oncologici e si tratta di pazienti in trattamento attivo o che da poco l’hanno finito, di persone guarite o in follow up. Un mondo così ampio che manifesta bisogni molto articolati che vanno da bisogni di alta specializzazione (Molecular Tumor Board) a bisogni di bassa intensità assistenziale e addirittura bisogni più sociali che sanitari, che chiedono una risposta puntuale dal territorio. La stessa pandemia ha mostrato questa necessità che oggi è sempre più impellente, alcune cure possono essere fornite dal territorio. In questa ottica diventa centrale ripensare il percorso del paziente oncologico e l’organizzazione oncologica declinando il percorso avendo a disposizione nuovi setting assistenziali, come i letti di cure intermedie, ospedali e case di comunità, le articolazioni del Chronic Care Model e il domicilio assistito e protetto del paziente. Ci sono poi delle attività molto importanti per la definizione della qualità del paziente oncologico che dovrebbero essere delocalizzate come la riabilitazione oncologica, il supporto nutrizionale e la psiconcologia come pure alcuni trattamenti oncologi che non richiedono un particolare impegno assistenziale. Bisogna disporre di una infrastruttura e un lavoro comunicativo di questo cambiamento efficaci ed efficienti”.

“Esistono dei percorsi oncologici che non possono che svolgersi sul territorio, come gli screening, i follow up dei pazienti che hanno completato le terapie e anche le terapie palliative domiciliari. Tutto questo monte di prestazioni deve essere necessariamente svolto sul territorio – ha spiegato Raffaele Donini, Assessore alle politiche per la Salute, Regione Emilia Romagna -. Poi occorre sperimentare nuove modalità organizzative per portare l’assistenza e le terapie sempre più vicine al paziente, come gli ospedali di comunità e gli ospedali distrettuali, dove sia possibile in futuro usufruire anche dei servizi socio-assistenziali e sanitari sempre più intrecciati tra loro. Il PNRR è una grande opportunità se accanto alla realizzazione delle strutture ci sia modo di sviluppare dei contenuti e delle politiche di implementazione della domiciliarità, della telemedicina, della digitalizzazione della sanità e della sanità territoriale”.

Il domicilio del paziente deve essere il primo livello di assistenza e le case di comunità potrebbero garantirlo.

“Nelle case di comunità l’integrazione sanitaria con l’aspetto socio-assistenziale dovrà realizzarsi maggiormente soprattutto per i malati oncologici– ha aggiunto Donini -. L’oncologia rappresenta per noi una sfida per affrontare la cronicità, l’obiettivo che ci poniamo è dunque quello di valorizzare le strutture territoriali nel processo di integrazione con l’ospedale e non concepire ospedale e strutture territoriali come due mondi diversi ma in una continuità che possa valorizzare la presa in carico dei cittadini”.

Sandro Pignata, Direttore della divisione di oncologia medica del dipartimento di Uro-ginecologia presso l’Istituto Nazionale Tumori di Napoli, ha posto degli interrogativi:

“Siamo sicuri che il territorio sia la stessa cosa in tutte le regioni? E come si coniuga il territorio nelle varie regioni? Nella nostra realtà, il territorio è molto complesso e comprende ospedali che svolgono attività oncologiche, strutture palliative che seguono tanti pazienti oncologici, servizi ambulatoriale che affrontano tanti possibili bisogni dei pazienti, e non è detto che in tutte le regioni sia così. La prima attività che abbiamo messo in essere è creare connessioni fra tutte queste realtà in un sistema digitale informatizzato che crea delle vie certe di comunicazione tra tutti questi aspetti. L’esempio concreto sono i nostri 80 gruppi oncologici multidisciplinari interaziendali per cui il singolo paziente viene discusso sia dal centro di riferimento che tra gli specialisti dell’ospedale territoriale. Questo crea la connessione ospedale-territorio già dal principio, il sentirsi parte del sistema per i medici più periferici e quelli centrali e poi sviluppa il concetto del corretto setting assistenziale”.

Luigi Cavanna, Direttore Dipartimento di oncologia-ematologia, Azienda USL di Piacenza, ha chiarito che molto ancora c’è da fare.

“Noi clinici dobbiamo considerare che il malato oncologico oltre al tumore e alle sue cure, ha una propria vita fatta di relazioni, di lavoro, di problemi di tutti i giorni. Basti pensare al tempo trascorso in viaggi per le cure, il tempo per raggiungere l’ospedale per la cura oncologica che si ripete, e per il malato oncologico metastatico questo avviene per lungo tempo, intervallato più o meno da brevi periodi di riposo, spesso per tutta la vita. La distanza dal luogo di cura può fare perdere, o comunque ridurre l’equità di accesso alle cure. In una nostra revisione della letteratura pubblicata su The Oncologist nel 2015, abbiamo evidenziato che la distanza dal luogo di cura condiziona sfavorevolmente 4 items importanti: ritardo diagnostico, cure non appropriate, esito (sfavorevole). qualità di vita (peggiore). Per dare risposta a questi disagi nella realtà di Piacenza, già da anni gli oncologi dall’ospedale capoluogo di provincia si spostano per le terapie oncologiche nei 3 ospedali periferici e in una casa della salute, situata in ampia vallata priva di ospedali, al fine di portare la cura oncologica in prossimità dell’abitazione dei pazienti rispondendo così ai loro bisogni. Tale modello ha portato questi risultati: dal 2017 al 2020 sono stati seguiti 1.339 pazienti intrattamento attivo, hanno fatto più di 10mila accessi, le terapie infusionali sia classiche che con farmaci innovativi sono state 16.662 e i chilometri risparmiati accedendo all’ospedale di prossimità o alla casa della salute sono stati 3.627”.

“A tale proposito bisognerebbe fare una grande azione di comunicazione- ha aggiunto Fiorenzo Corti, Vice Segretario Nazionale FIMMG -, perché se è vero che oramai esiste una standardizzazione di cure, è assurdo che da Messina un paziente venga a Milano per effettuare le cure”.

Secondo Paolo Pronzato, Direttore Oncologia Medica IRCCS San Martino, Genova e Coordinatore DIAR Oncoematologia Regione Liguria “Bisogna capire quali sono le attività che debbono essere mantenute in ospedale e quelle che possono essere portare sul territorio. Non dovrà esistere più che il grande centro non sia collegato con la casa di salute, con le diramazioni extra ospedaliere del sistema sanitario e dobbiamo attrezzarci per questo proponendo delle soluzioni che mirano ad approcciare il paziente oncologico con modelli organizzativi profondamente innovativi che servono anche a poter sostenere le altre innovazioni, tecnologiche e farmacologiche, che permettono ai pazienti di vivere di più”.

Il Direttore Pronzato intende territorio tutto ciò che sta fuori dell’ospedale per acuti.

“Questa è una definizione che ci permette di mettere da una parte gli ospedali, che devono funzionare come tali per le acuzie e le alte tecnologie, dall’altra i medici di medicina generale, le cure palliative domiciliari, le cure intermedie, le residenze sanitarie, le case di comunità e della salute. Ritengo che al momento attuale gran parte del percorso oncologico sia all’interno dell’ospedale ed è un fatto improprio dal punto di vista della gestione del percorso e della qualità delle cure, perché il paziente oncologico è un paziente cronico e pertanto è necessario fare capo a tanti soggetti erogatori di assistenza socio-sanitaria diversi. L’oncologia moderna va fatta con il territorio perché il cancro è diventata una malattia cronica e non si può immaginare che sia solo la pillola assegnata all’interno di un ospedale che può dare i risultati estremamente favorevoli che vediamo oggi, ma è tutto il contorno di cura.

O noi pensiamo a questo nuovo modo di vedere il paziente oncologico oppure non verificheremo poi sul campo quei risultati favorevoli che i grandi studi che sono stati pubblicati recentemente dimostrano. E’ un obbligo anche per le grandi istituzioni di confrontarsi con il territorio, inteso come attività extra-ospedaliera”.

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