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Sister Act, il musical val bene una messa in scena con Suor Cristina

Di Carmelita Celi |

“Io sono l’umile ancella del Genio creator”. E’ una sorta di Adriana Lecouvreur in missione per conto di Dio, Suor Cristina Scuccia (siciliana di Comiso e formata tra Roma e Milano) l’ugola d’oro che “The voice of Italy” ha garbatamente catapultato nello showbiz non senza la benedizione laica di Nostra Signora della Televisione, Raffaella Carrà. In scena (è Maria Roberta, suora vera tra le suore finte di “Sister Act” ) è disciplinata al limite del maniacale; dietro le quinte è di una semplicità disarmante e di una verità quasi inattesa. Ventott’anni, figuretta minuta ma se tira fuori voce di canto e di fede, diventa uno tsunami.

E’ ancora “suor” Cristina?

“Certo! Noi orsoline rinnoviamo i voti ogni anno ma dopo 6 anni diventano perpetui”.

Vero è che le suore cantano da sempre ma Lei è stata proprio lanciata da una suora, nel “Coraggio d’amare” interpretava la parte di Suor Rosa…

“Sì ma allora ero ancora nella mente di Dio, non pensavo di diventare suora! E’ stata lei a chiamarmi, più mi calavo nel personaggio più mi rendevo conto che quella era la mia strada. Suor Rosa è la fondatrice delle Orsoline della Sacra Famiglia di Siracusa: era una donna audace che non esitava ad andare dalle ragazze e chiedere: avresti il coraggio di lasciare tutto per donarti a Cristo? Lo fece anche con colei che sarebbe diventata Suor Arcangela, donna di grande stile e la congregazione aveva bisogno di persone di cultura. Tante cose di Dio restano un mistero ma credo che, da come si è palesata nella mia vita, la chiamata del Signore attraverso la musica non sia stata per caso”.

“Sister Act” rinnova la missione?

“Sì, ha una formula vicina a ciò che voglio comunicare”.

Cioè?

“L’incrocio tra la vita laica di Deloris che è fuori di testa e la vita rigida del convento quasi coincide con l’invito di Papa Francesco. E alla fine del musical, la Superiora che vuole proteggere le consorelle e Deloris che vuole aprire a nuove possibilità d’amore, riconoscono che, dopo tanto combattersi, dicono la stessa cosa. Musica e fede, musica è fede. Anche per me”.

E’ vero che ha pensato di ritirarsi?

“Mai!!!”.

Mi riferivo alla musica non alla fede.

“Ah sì, quello dello spettacolo è un mondo particolare, bisogna avere le radici in Cristo, lottare anche per lui. Tutti i giorni mi chiedo: Signore, che cosa ci faccio qui? Cosa sto facendo? Poi però dico: Mi hai messo in questo pasticcio? Beh, allora te la sbrigherai tu a tirarmi fuori. Ci penso sempre, soprattutto quando sono dall’altra parte del mondo, mi sento piccolissima e con un carico enorme di responsabilità. L’unico ripensamento è questo, non lo nego”.

Ha cantato anche in “Titanic”, il musical, ma lì non era certo Rose…

“No, ho interpretato un personaggio che già esisteva, Kate, una ragazza animata da una gran fede in Cristo. Abbiamo aggiunto qualche dettaglio ed è bastato perché diventasse “Suor” Kate Murphy”.

Dei “talent” pensa ancora tutto il bene possibile?

“Dopo la mia esperienza in casa discografica, per me un universo totalmente sconosciuto, ammetto che i “talent” sono una vetrina necessaria nel complicatissimo mondo della musica. Nei miei confronti c’è sempre stato molto rispetto, ero pur sempre una suora accompagnata dalla mia superiora”.

Che la segue tuttora?

“Se può, nei tour dall’altra parte del mondo specialmente anche se in realtà hanno ormai delegato una persona di fiducia che si occupi di me”.

Com’è stato che “mamma” Raffaella Carrà a un certo punto abbia detto che, senza l’abito da suora, la sua è una voce come un’altra?

“Non ho fonti certe in merito a questa cosa ma so che quando ho cantato si sono girati tutti e quattro e non sapevano che fossi una suora. Per i pochi contatti che ho avuto, la Carrà è stata subito dalla mia parte, anzi, mi rimproverava di non avere scelto di stare nel suo team”.

Coltiva un progetto musicale assolutamente suo?

“Mi piacerebbe tirar fuori ciò che ho dentro, dare alla speranza una forma di spettacolo. Non solo musica ma anche danza e poesia per rivisitare la bibbia con l’illuminazione e la freschezza di cui i giovani forse hanno ancora più bisogno, oggi”.

Qual è la sua giornata tipo?

“Comincia con le lodi al mattino e termina con i vespri e la compieta. Se sono a casa, mi rendo utile dovunque, a scuola, in parrocchia,in portineria. Se preparo uno spettacolo, mi alleno con un insegnante che mi segue ma non tutti i giorni, non vivo certo in funzione della musica!”.

Gli ortodossi l’hanno risparmiata?

“Non sono mancate critiche da parte dei più conservatori ma so bene che ciò che è successo non è stato perché una mattina mi sono alzata e ho scritto a “The voice”! E’ stata la loro redazione a contattarci dopo un mio video su youtube. Dapprima i miei superiori temevano di perdere una suora giovane con la carenza di vocazioni! Poi, però, hanno pensato che se stava accadendo giusto quando papa Francesco invitava d’aprirsi ed uscire nel mondo, poteva trattarsi di un’autentica chiamata”.

Se Noa fa concerti con la palestinese Mira Awad, Suor Cristina può immaginare di cantare con una musulmana?

“In Giappone ho conosciuto scintoisti ma senza possibilità di scambio e il Papa insiste sulla necessità di dialogo interreligioso. Sa che mi ha dato un’idea?”.

                            Se il musical val bene una messa 

“Sister Act” val bene una messa in scena. Ed il diabolico e celestiale capolavoro di Menken&Slater nella versione della Compagnia della Rancia, regìa di Saverio Marconi (al Metropolitan fino a domani) passa la ribalta. Con molto onore e platea fittissima e osannante dai 5 ai 75 anni.

Dinanzi ai musical anglosassoni le forche caudine sono almeno due: i precedenti cinematografici “scomodi” ed eccellenti e la pericolosa sostituzione dell’inglese con l’italiano, che da Jacopo da Lentini a Montale può essere lingua musicale ma non abbastanza “musical”. La Rancia non inciampa né nell’una né nell’altra: la “svitata in abito da suora” parla un italiano aderente e credibile, catturanti le canzoni, d’effetto e ben calibrate coreografie e scene, “dannatamente” appropriati i costumi. Colore e calore.

Sono tutti in parte, dal monsignore (l’illuminato O’Hara di Giancarlo Capito) ai chierichetti invasati e “rapper”. Dialoghi agili, nessun crollo di ritmo.

E non si scimmiottano modelli da film, ciascuno interpreta un “classico” con personalità e talento indiscutibile. Convincenti e contagiose tutte le “suor Maria”, in testa quella finta con chioma alla Angela Davis, l’ispanica Belia Martin (Deloris Van Cartier), voce contraltile e duttile, vero giamburrasca in tonaca. Per ottimo piglio d’attrice non le è seconda la Superiora, l’italo-francese Jacqueline Maria Ferry e, dulcis in fundo, Suor Maria Roberta al secolo Suor Cristina. E’ ancora novizia ma è già un usignolo e vola alto.

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