Dentro la casa degli orrori di Licata
Dentro la casa degli orrori di Licata l’Sos della “principessa” nel tema «Si mangia cacca»
Il racconto dei disabili maltrattati nel centro Suami. Otto indagati
LICATA. Anche dentro il più schifoso film dell’orrore puoi salvarti se riesci a sognare. E così fa “Jennifer” (nome di fantasia), vomitando istinto di sopravvivenza sul foglio a righe di un tema in classe. La ragazzina, disabile mentale minorenne, è «una principessa che sta facendo un incubo, in una casa da sola con una strega che tiene tutti i ragazzi in una casa con i suoi complici». E deve combattere contro «una strega cattiva e crudele che riempie di medicinali quelli che non hanno famiglie, li addormentano e li picchiano». “Jennifer” riesce ad anticipare il finale: « […] all’improvviso mi sveglio da questo sogno brutto…». È successo ieri.
OTTO INDAGATI, UNA DONNA AI DOMICILIARI
Sos nei temi d’italiano. La Buona Scuola non è nei decreti. È quella, in carne e ossa, delle buone presidi, delle buone insegnanti. Che amano questo lavoro. E che, grazie ai buoni investigatori e ai buoni magistrati, sconfiggono la strega e gli altri orchi. L’operazione “Catene Spezzate” nasce così. Il minuzioso lavoro (intercettazioni e filmati, ma anche ispezioni, atti e testimonianze) dei carabinieri di Licata e della Procura di Agrigento partono dall’Sos della “Luigi Pirandello”. Una scuola paritaria licatese. È l’insegnante di Lettere, Chiara Antona, a raccogliere i messaggi nella bottiglia delle giovanissime vittime di angherie e violenze, lanciati nell’oceano dei temi in classe. È lei a capire la gravità di quelle parole e poi, insieme con la preside Vincenza Accardi, a consegnare scritti (ma anche file audio e foto) agli uomini del capitano Marco Currao. La prima volta il 12 dicembre scorso. Oltre a quello sulla «principessa», in un altro compito c’è la richiesta d’aiuto, ben più esplicita, di “Jennifer” alla docente: «Vorrei tanto che capissi quello che succede in comunità, sei l’unica persona che mi crede […] sono persone cattive […] io li vorrei fare passare tanti guai, quello che fanno a K. (omettiamo il nome, ndr). Vorrei tanto che proverebbero quello che prova lei […] non meritano di vivere con altra gente che è buona le persone che legano con la catena e con lo scotch e che a K. li fanno le punture per addormentarla».
Chiamiamola “Katiuscia”. Compagna di sventura di “Jennifer”. Che, in un altro scritto rivela: «… poi sono andata in bagno e ho visto K. che si mangiava la cacca e poi K. l’anno legata con lo schoch mani e piedi e bocca e li hanno messo una coperta di sopra gli facevano guai le mettevano le mollette nel naso gli davano schiaffi gli altri pieni di medicinali e io avevo paura volevo chiamare i carabinieri ma non ci sono riuscita ora ho tanta paura che mi fanno del male». Sono gli agghiaccianti punti di partenza di un’indagine su quelli che il pm Alessandro Macaluso, nella richiesta al gip Alessandra Vella, definisce «maltrattamenti di natura fisica e psicologica tali da cagionare in loro gravi sofferenze ed umiliazioni». Per intenderci: «loro» sono i minori con deficit mentali e i disabili “ospiti” della sede licatese della Suami Onlus. E le accuse che hanno portato al sequestro e alle misure cautelari non sono soltanto nelle pagine dei quaderni.
Tanto più che a un certo punto i responsabili della struttura capiscono che qualcuno, a scuola, parla troppo. Caterina Federico, assistente sociale e di fatto responsabile della comunità, da ieri ai domiciliari, affronta l’insegnante: «Mi minacciò ripetutamente dicendomi che se avessi continuato a comportarmi in quel modo […] mi avrebbe denunciato perché mi ero permessa di fare delle foto a ragazze minorenni», racconta la prof in caserma. E anche l’amministratore della struttura – il presidente del consiglio comunale di Favara, Salvatore Lupo – per gli inquirenti sa tutto. «Li devi far cagare», dice alla fidata Federico riferendosi agli ospiti “ribelli”, in una telefonata intercettata il 10 febbraio.
Incatenato alla branda. Ma a mettere nei guai la “Suami” sono l’ispezione del Nas di Palermo e soprattutto le telecamere piazzate dai carabinieri. Il 1º febbraio, entrando nella sede con la “scusa” di una fuga di gas segnalata da anonimi ai vigili del fuoco, gli investigatori trovano una catena di ferro con lucchetto sulla brandina di uno dei ragazzini. Poco dopo il blitz, Federico parla al telefono con un’operatrice, Maria Cappello. Caterina: si, ma le avete tolte le cose dal letto di A.? Maria: no, gioia… non ce l’abbiamo potuto fare… A. ce l’abbiamo qua nel furgone, ma le cose sono rimaste là… Caterina: casomai gli dici a Salvo di levare queste cose… Maria: e io ero chiusa nella stanza con A. che l’abbiamo liberato e ce ne siamo scesi… […] e non me l’hanno dato questo tempo… anche perché non so come l’hanno ingarbugliata ».
«L’abbiamo liberato», dice. Sottinteso: il “prigioniero”. Un «povero disabile» che, scrive il pm dopo aver visto le immagini «veniva sistematicamente e senza alcuna necessità incatenato alla branda dai vari operatori». Senza poter mangiare e con un “pappagallo” per fare la pipì. Una «pratica inumana», sostiene l’accusa. Corroborata anche dalle dichiarazioni della stessa Cappello, sentita dai carabinieri: «Rimaneva legato al suo letto con le catene in ferro per intere giornate e per intere nottate». I video, tra gli altri scempi, narrano anche «delle scene in cui si nota B. N. percuotere senza ragione con un mazzo di chiavi legate ad un laccio» il minore, «incatenato al suo letto».
Le “pene” e la dispensa. Basta leggere la storia di “Giuseppina” (altro nome di fantasia) per capire il quadro di «continue privazioni, umiliazioni e sofferenze» per minori e disabili. Nelle confidenze di “Jennifer” alla sua insegnante c’è l’ennesimo episodio di violenza subita dalla sua compagna: «Ho visto una scena bruttissima prima l’hanno messa a terra e poi gli hanno dato tanti calci nella pancia […] è tutta piena di bulli in faccia nel corpo poi gli hanno tagliato il polso col il coltello».
Circostanza riscontrata in una telefonata fra Caterina e Angelo Federico. La ragazzina «stava facendo un po’ di bordello», racconta lui. La punizione? «Le ho tolto il mottino e il succo di frutta». Ma la disabile si ribella, «si è mangiata tutte cose, mi ha preso in giro… si è mangiata tutte cose». Ciò che accadrà dopo si capisce da un’altra chiamata della Federico a un’operatrice: «La pomata a V. non vi dimenticate… anche nel braccio mi pare aveva bisogno di mettersela… così avanti che lunedì le passano tutte cose… mischina». «Chi non mangia a pranzo non mangia a cena», c’era scritto su una lavagnetta trovata dai carabinieri in sala da pranzo. Regola poi modificata con punizioni specifiche per «chi si comporta in modo scorretto», suddivise in due sottocategorie: per chi fuma «tre giorni senza sigarette»; per chi non fuma «tre giorni senza cena». Una pena che, se non avessero rischiato di morire di fame, potrebbe essere considerata una liberazione.
Viste le condizioni della dispensa. «In condizioni igieniche vergognose» per stessa ammissione dell’operatrice “pentita” Cappello, che ricorda come «non veniva mai pulita da noi operatori, era come se non esistesse»; i carabinieri del Nas di Palermo verbalizzeranno di «un locale privo di aperture esterne, imbrattato da polvere, ragnatele, muffe, dove su uno scaffale arrugginito venivano tenuti gli alimenti da distribuire agli ospiti». Già, il cibo: «diversi alimenti arbitrariamente congelati con attrezzatura non idonea e scaduti di validità», scrivono i Nas. Ma comportarsi in modo «corretto», dentro la “Suami”, significava anche essere impiegati «in diverse mansioni lavorative, a volte le più degradanti e faticose». Come la «disinfezione della cisterna», annota il pm, sbandierando l’intercettazione di una telefonata del 30 gennaio fra Caterina Federico e il fratello Angelo, nella quale lei gli comunica che nel pomeriggio si sarebbero dovuti occupare del «ricovero di quella a Villaggio Mosè», chiedendogli di portare con sé due delle ragazze che avrebbero dovuto aiutarla a «stricare (lavare per bene, ndr) a quella».
Bagni d’acqua «urinata» A proposito di igiene. Un pesante particolare sulla «gestione criminale della struttura», nelle carte dell’accusa, è un altro episodio che vede coinvolta “Katiuscia”. Il pm scrive che «malgrado la consapevolezza della contaminazione da “batteri colifoformi» nei serbatoi, quando questi venivano svuotati «la minore veniva lavata con le acque infette da Ferranti Angela (un’altra delle indagate, ndr) con l’assenso di Caterina Federico». A questo proposito, alle 9,40 del 21 gennaio il “capo” della struttura riceve una telefonata dalla dottoressa Vincenza Pira. Enza: va bene … niente, dobbiamo parlare a proposito dell’acqua della Suami di via Gela… Caterina… Caterina: non era buona? Enza: infatti… era urinata… e gioia mia, si deve ripulire e di nuovo fare le analisi…
La stessa acqua «urinata» che, in una chiamata alle 16,29 dello stesso giorno ad Angela “Cesira” Ferranti, la Federico scopre essere usata per un altro scopo. Cesira: ancora… ancora acqua corre… ora a C. mi sto lavando addirittura… Caterina: un po’ di porcherie le hanno levate? Cesira: ma ancora acqua tirano… Caterina: ho capito… Cesira: sto finendo di lavare a C. ora, visto che l’acqua mi corre… Caterina: uh, uh… va bene… dai… La parte più oscura dell’animo umano sembra non avere fondo. E così, dopo ore di conversazioni e di video-choc, i pm non si stupiscono di niente. Nemmeno del “codice” utilizzato da chi dovrebbe prendersi cura di persone fra le più deboli e indifese della società. Il 30 gennaio Caterina Federico parla con una collega della “Suami” che si appresta ad accogliere una nuova ospite. «Stanno arrivando gli accalappia pazzi», le dice.
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