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Fabrizio Miranda scopre “interruttore” per aggredire carcinoma ovarico

Di Maria Ausilia Boemi |

«Il carcinoma ovarico – spiega il dott. Miranda – normalmente forma metastasi in una regione specifica della cavità peritoneale – l’omento – ricca di cellule adipose. Abbiamo scoperto che nelle cellule di carcinoma ovarico è maggiormente attivo un enzima che le stimola a utilizzare gli acidi grassi prodotti dalle cellule grasse, dando loro nutrimento ed energia. Le cellule del carcinoma ovarico sono cioè in grado di crescere e proliferare grazie a questo enzima. È come se quest’ultimo fosse un interruttore metabolico della proliferazione delle cellule del carcinoma ovarico nel particolare ambiente della cavità peritoneale». Il prossimo passo della ricerca è tentare perciò di “spegnere” questo interruttore metabolico: «Abbiamo già studi in collaborazione con altre università Uk e con Harvard per sviluppare inibitori di questo enzima. Si deve trovare quello adatto ad essere testato sulle pazienti per cominciare il trial clinico». Non è una scoperta, dunque, con immediati riflessi clinici (in genere passano tra i 5 e i 10 anni prima della messa a punto di un chemioterapico), ma è un importante passo avanti nella lotta a questo tipo di tumore che, secondo il Registro Tumori, colpisce ogni anno in Italia circa 4.500 donne e che in genere viene diagnosticato in fase avanzata.

Una scoperta importante fatta dal dott. Miranda al dipartimento di Ostetricia e ginecologia dell’università di Oxford, in collaborazione con altri centri come Harvard e Houston. Ma dopo la scoperta, la scelta controcorrente (o forse no) di rientrare in Sicilia: «Attualmente sono un visiting fellow (un collaboratore) di Oxford, perché sto finendo alcuni lavori con loro». L’aspetto inconsueto è che in realtà il contratto del dott. Miranda non è scaduto (manca ancora un anno): «Poiché – spiega – avevo terminato i miei progetti, ho preferito rientrare a Palermo, dopo anni all’estero, perché ho sempre avuto il desiderio di tornare a casa e provare a fare in Sicilia la mia ricerca, costruendo il mio gruppo, trovando i finanziamenti e rendendomi così indipendente».

Una scelta presa dopo diversi anni fuori dall’Italia. La “prima volta” del dott. Miranda all’estero risale al termine della laurea triennale in Biologia, quando a proprie spese lavorò tre mesi in un laboratorio a Londra: «Avevo voglia di vedere cosa fosse la ricerca all’estero e lì mi sono reso conto che era un altro mondo. Sono poi rientrato in Italia per la specialistica, ma il laboratorio di Londra mi richiamò perché c’era una borsa di studio: mi fecero un contratto di un anno e ho così scritto la mia tesi a Londra. La mia esterofilia è iniziata in quel periodo». Poi il dottorato a Palermo, con due anni a Filadelfia nel laboratorio di Antonio Giordano: «Lì ho completato le mie ricerche del dottorato, ma sempre tramite l’università di Palermo. Tornato dagli Usa, ho vinto un’altra borsa di studio per andare nuovamente a Londra, in un laboratorio diverso rispetto a quello precedente, dove ho fatto 6 mesi in borsa di studio. Infine ho mandato il curriculum a Oxford e mi hanno assunto in sostituzione di una collega che aveva interrotto il contratto: dovevo coprire l’anno e mezzo che mancava alla fine del suo contratto, ma poi me l’hanno rinnovato prima per 3 anni, poi per altri 2. Alla fine, sono rimasto lì più di 5 anni».

Ora la scelta – non l’obbligo, che è diverso – di tornare a Palermo: «Io adoro la Sicilia e la mia città. Oggi, avendo pubblicato, avendo un curriculum un po’ più importante rispetto a 7 anni fa, quello che vorrei fare è chiedere finanziamenti per iniziare la mia ricerca e diventare indipendente. Mi piacerebbe in particolare continuare nello studio dello sviluppo delle metastasi del carcinoma ovarico».

Un rientro in Sicilia pur consapevole delle difficoltà: «In Italia – sottolinea – ci sono tante belle idee, ma è quasi impossibile metterle in pratica per carenza di fondi (la cosa più banale), organizzazione inadeguata, mancanza di collaborazione». Pur tuttavia, secondo il dott. Miranda, tanti cosiddetti “cervelli in fuga” vorrebbero tornare: «Sarebbe bello collaborare anche a Palermo con ricercatori con una mentalità diversa da quella a cui siamo abituati qui, una mentalità un po’ più aperta e internazionale. Perché in fin dei conti, le difficoltà che si incontrano qui sono in un certo senso simili a quelle in cui ci si può imbattere all’estero. Mi piacerebbe portare in Sicilia il mio network di conoscenze accumulato all’estero, dando la possibilità a qualche giovane ricercatore di lavorare con me, di fare anche esperienza fuori, per farlo poi rientrare».

Certo, questo sarebbe il percorso virtuoso, che però in Italia si scontra con una realtà che penalizza la ricerca e porta i giovani a fuggire e a non rientrare: «In realtà – sostiene il dott. Miranda – il problema dei cervelli in fuga è relativo: ovunque io sia stato, c’erano persone provenienti da vari Paesi del mondo. Questa è mobilità, oggi è normale, anzi dovrebbe essere un beneficio per il nostro Paese. Il problema è che questa gente resta all’estero: il nodo, quindi, non è la fuga, ma il rientro che non c’è. Non si riesce a riattrarre chi è andato via o magari a fare venire scienziati stranieri. Piuttosto allora che investire in borse di studio di un anno che non hanno molto senso, servirebbe una programmazione di più ampio respiro, con la creazione di programmi coi quali mandare qualcuno fuori per due anni, ma prevedendo già un investimento per il suo rientro in Italia».

Anche perché il dott. Miranda si unisce al coro universale di scienziati e ricercatori che sottolineano, dopo essersi confrontati con i colleghi stranieri, che la preparazione che fornisce la scuola italiana è di alto livello: «La nostra preparazione è ad ampio spettro, ti prepara in qualsiasi campo: io ho una laurea in Scienze biologiche con una preparazione che mi avrebbe consentito di lavorare in qualsiasi ambito della biologia. All’estero, invece, si focalizzano sulle specializzazioni».

Se questo è un punto di forza dell’Italia, cosa manca invece al Belpaese? «Manca intanto un minimo di trasparenza e meritocrazia. Poi manca l’organizzazione, c’è una burocrazia molto lenta. Oggi la scienza va alla velocità della luce e non possiamo avere una burocrazia che va a passo di lumaca: non posso aspettare un mese per ordinare un reagente, quando in Inghilterra lo ordino la sera e mi arriva la mattina dopo. Il problema dei fondi, invece, tutto sommato è relativo».

E ai giovani, allora, quale consiglio si potrebbe dare? «Di fare quello che ho fatto io: l’esperienza all’estero, soprattutto nel mondo globalizzato, non è assolutamente un male. Per esperienza non intendo i 3-6 mesi, ma andare a vivere fuori per 3-4 anni, confrontarsi col mondo esterno, senza avere paura magari di scoprire, se la cosa piace, di potere rimanere all’estero. Ma per scelta, non per obbligo». L’unica cosa che il dott. Miranda cambierebbe forse del suo percorso è fare il dottorato interamente negli Usa, «perché questo alla fine apre tantissime porte e ha un peso maggiore anche soltanto grazie al nome dell’ateneo prestigioso, oltre al fatto che dal punto di vista dell’inserimento nel mondo del lavoro quelle università hanno una marcia in più rispetto alle nostre». E questo fa un po’ rabbia, visto che gli atenei italiani danno una preparazione ottima: «Vero – conferma il dott. Miranda -, le nostre università ci preparano, ma preso il diploma cosa fai? Il mondo del lavoro è chiuso, mentre se uno prende un dottorato all’estero, ci sono mille sbocchi professionali già durante l’università: la maggior parte delle persone uscite da Oxford aveva già il posto di lavoro prima ancora di consegnare la tesi. E poi, parlando dal punto di vista scientifico, fare un’esperienza di dottorato in un’università prestigiosa ti garantisce anche un certo tipo di pubblicazioni di alto livello: e farle in età precoce, a livello di carriera ha la sua importanza».

Nonostante tutto, però, il dott. Miranda è convinto della scelta che ha fatto: «Fare ricerca in Sicilia è il mio sogno, anche se poi non dipende esclusivamente da me, nel senso che i fondi si devono cercare e vincere. E in Italia ce ne sono pochi. Ma io ci provo e spero di riuscire. Ovviamente, per ottenere i finanziamenti ho bisogno di un appoggio, di un laboratorio, ma questo vale in tutte le parti del mondo. Devo comunque dire che da questo punto di vista non c’è problema. I fondi sono personali, la maggior parte sono europei e il mio curriculum sarà valutato da una commissione di esperti internazionale assieme al mio progetto e, se vorranno, me lo finanzieranno. Dopodiché, questa ricerca sarà sviluppata all’interno di un istituto che deciderà di ospitarmi. Il sistema funziona così in tutto il mondo. Quello che voglio dire è che non è necessario avere chissà quale collegamento: i professori mi conoscevano e mi hanno dato tutta la disponibilità. Chiaramente, a loro l’ospitalità non costa nulla». Anzi, ne possono ottenere un ritorno, non solo perché «parte dei fondi vanno all’ente che ti ospita, ma anche perché in qualunque pubblicazione dovessi fare, sarebbe citato l’ateneo di Palermo: quindi, anche l’università ne avrebbe un ritorno di prestigio».

Fermo restando che il dott. Miranda mette anche in conto un eventuale insuccesso: «Se non dovessi riuscire, ci sono mille altre strade. Questa è una cosa che ho imparato all’estero: il finanziamento lo chiedo, se me lo danno ben venga, sennò non succede nulla. La differenza è che rispetto a chi diceva qualche anno fa che era inutile anche soltanto provarci, oggi tante persone come me vorrebbero tornare e tentarci».

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