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Il potere dei corleonesi vacilla, Cosa Nostra prepara la svolta

Di Fabio Russello |

E’ quanto si legge nella relazione semestrale, riferita alla prima parte del 2016, trasmessa dalla Dia, attraverso il ministro dell’Interno Minniti, alla Presidenza della Camera lo scorso 3 gennaio.

Secondo le risultanze della Direzione investigativa antimafia i corleonesi «sono in declino anche per ragioni anagrafiche e di salute dei rappresentanti più autorevoli» (Provenzano è morto, Riina è ormai fuori dai giochi o quasi) e sembra «incombente la successione al potere». Troppi i segnali emersi in questi ultimi mesi come ad esempio – elemento non secondario in una organizzazione strutturata quasi militarmente sul territorio – «l’assenza di una netta linea di confine tra un mandamento e l’altro, determinata proprio dall’attuale fase di transizione dell’organizzazione» che «paventa il rischio che le famiglie più forti finiscano per imporsi su quelle più deboli, sia sottomettendole, sia – cosa più probabile – annettendole alla propria sfera d’influenza».

Una insofferenza verso la leadership corleonese che, nel passato, era stata garanzia, per la struttura, di massima coesione verticistica e la cui autorità non era mai stata finora messa apertamente in discussione. A suo modo è un passaggio epocale che, peraltro, si starebbe compiendo nonostante la presenza sul territorio di Matteo Messina Denaro la cui sfera di influenza a questo punto sembra sempre più «ristretta» al Trapanese.

Ma la Dia avverte: «Cosa nostra continua a caratterizzarsi, in primo luogo, per essere un’organizzazione criminale fortemente strutturata, avente un proprio ordinamento, un vasto bacino di reclutamento ed elevate potenzialità offensive». E inoltre gli investigatori spiegano come il «fenomeno dell’inabissamento», non sia un depotenziamento della mafia siciliana ma una, anche se forzata, scelta strategica di sopravvivenza finalizzata a sottrarsi alla pressione dello Stato. Tanto è vero che cosa nostra riesce, non solo a condizionare gli apparati politico-amministrativi locali, ma potendo disporre di consistenti capitali “a basso costo”, altera inevitabilmente il sistema economico-finanziario. E da riscontri d’indagine e da nuove collaborazioni, è emersa la fotografia di un’organizzazione con una propensione ancora verticistica, ma nei fatti multipolare, che si avvale di molti centri di comando e che opera in uno scenario eterogeneo, in cui si rilevano sconfinamenti, ingerenze, candidature autoreferenziali e, ancor più, la tendenza di famiglie e mandamenti ad esprimere una maggiore autonomia.

 

Dal punto di vista del potere economico la Dia ha rilevato come sia evidente – e suffragato da concordanti dichiarazioni di collaboratori di giustizia – che scontare le condanne in carcere costituisca un “rischio d’impresa” calcolato e in qualche modo previsto nel cursus honorum mafioso, mentre l’essere spogliati dei beni mina, invece, alla base il prestigio e la credibilità degli uomini d’onore, per i quali rappresenta un’onta insopportabile al cospetto della collettività di riferimento. Cosa nostra inoltre non sembra rinunciare ad una pressione capillare attraverso le estorsioni, fenomeno che colpisce indifferentemente piccoli e grandi operatori economici, ma anche cittadini comuni, costituendo una delle principali fonti d’introiti per far fronte alle spese correnti che l’organizzazione sostiene per il mantenimento dei sodali e per il funzionamento della macchina organizzativa. Solo che gli unici episodi di ribellione registrati sono quelli dei commercianti extracomunitari (come accaduto al Ballarò). La Dia ha segnalato anche l’interesse dei mafiosi al settore delle scommesse clandestine, spesso praticate utilizzando reti informatiche e società estere e il ritorno massiccio, comunque rilevato ormai da qualche anno al traffico di stupefacenti in collaborazione con la camorra e le cosche calabresi. Così come sembra esserci lo zampino di cosa nostra nelle numero piantagioni di cannabis trovate in diverse province siciliane.

In provincia di Catania la mafia ha confermato gli schieramenti da tempo delineati: da un lato cosa nostra (sul capoluogo e provincia), rappresentata dalle famiglie Santapaola e Mazzei e i La Rocca su Caltagirone e dall’altro i clan, fortemente organizzati, Cappello Bonaccorsi e Laudani (però di molto ridimensionati dopo gli arresti del blitz Vicerè). Le inchieste hanno anche documentato numerosi incontri tra i rappresentanti di gruppi mafiosi catanesi e siracusani, finalizzati alla progettazione di attività criminali e ad assegnare cariche e compiti. Ma la Dia spiega anche come ricorso ad azioni violente «appare limitato e sostanzialmente funzionale all’affermazione o al mantenimento di posizioni di potere». Gli affari della mafia catanese tendono alla infiltrazione dell’economia legale con la partecipazione più o meno «spontanea» di imprenditori e al condizionamento dell’azione della Pubblica Amministrazione attraverso ad esempio la turbativa d’asta con la mediazione di esponenti deviati della massoneria. Si punta anche alla raccolta illecita delle scommesse, anche telematiche e non si tralascia mai le estorsioni i cui metodi di esazione non sembrano limitarsi alla “sola” richieste di denaro, ma si realizzerebbero anche con la forzata assunzione di manodopera individuata dai clan, con l’imposizione di forniture e servizi o mediante l’affidamento di sub appalti ad imprese imposte dai clan. Non manca l’usura e il traffico di stupefacenti ed anche fenomeno del cosiddetto «recupero crediti», che vede privati avvalersi di referenti dei clan per ottenere i soldi piuttosto che ricorrere a procedure giudiziali. Per la droga vi sono collegamenti stretti con le ‘ndrine della piana di Gioia Tauro e con alcuni clan campani per la sola cocaina.

In Sicilia dunque, come si ci fosse una sorte di attesa per i nuovi vertici della mafia palermitana, che ha poi naturalmente influenza sul resto dell’organizzazione siciliana, non si registrano particolari tensioni tra i vari clan. E’ il tempo dell’«inabissamento» con il duplice scopo di evitare l’allarme sociale e una controffensiva dello Stato ma, soprattutto, allo scopo di curare i propri affari. Affari che sono «comuni» in tutta la nostra regione e che poi nelle province tendono anche ad avere caratteristiche locali. Le infiltrazioni negli appalti pubblici, il ritorno massiccio al traffico degli stupefacenti, il pizzo, l’usura e le scommesse clandestine, sono il «core business» generale. Poi ci sono le aree economiche a carattere locale, come ad esempio il settore del confezionamento dei prodotti agricoli nel Ragusa, i furti di rame nell’Agrigentino, l’agroalimentare nel nisseno.

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