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Angelo Pirrone: «Così studio le basi dei comportamenti normali e autistici»
Studiare i processi di base dei comportamenti per comprenderli o trovare gli strumenti per curare disturbi, ad esempio dell’autismo: il ricercatore siciliano in Scienze cognitive e Neuroscienze, Angelo Pirrone, 30enne di Capizzi, laureato in Psicologia a Milano, un dottorato in Inghilterra all’università di Sheffield (durante il quale si è sposato con una cinese, che oggi si occupa di business) con un semestre all’università di Pechino, dove poi ha avuto la possibilità di svolgere un post doc di due anni, è da qualche mese tornato in Europa, nella norvegese Bergen, per un altro post doc triennale. «Sono originario di Capizzi – racconta – anche se la mia famiglia, per motivi di lavoro, quando ero bambino si è trasferita a Milano. Ma questo non ha interrotto i rapporti con la nostra Isola, tutt’altro: abbiamo parenti, affetti, amici, tradizioni importanti tra Capizzi e Catania (dove vivono alcuni parenti da parte di mio papà) e veniamo accolti lì sempre con il calore e l’affetto che rendono l’accoglienza siciliana famosa nel mondo».
Un percorso accademico che, come per tanti cervelli italiani, si snoda all’estero: «Mi sono laureato in Psicologia all’università di Milano, dopodiché sono andato per un dottorato in Inghilterra all’università di Sheffield, nel dipartimento di Psicologia e di Informatica dove ho lavorato con due ricercatori fantastici, Tom Stafford e James Marshall. Questo è stato probabilmente il momento fondamentale nella mia crescita accademica. Durante il dottorato, mi sono interessato alle ricerche di un docente dell’università di Pechino, Sheng Li, della Scuola di Scienze psicologiche e cognitive e sono andato per un semestre in Cina: esperienza positiva per entrambi, visto che sono tornato a Pechino da lui per il mio primo post doc biennale. Recentemente, ho cambiato Paese: da marzo sono in Norvegia, all’università di Bergen, per un altro post doc di tre anni con la professoressa Gisela Bohm, della facoltà di Psicologia, dopodiché spero di entrare di ruolo in qualche università».
Il dott. Pirrone è laureato in Psicologia, ma non è uno psicologo clinico: si occupa infatti di Scienze cognitive e Neuroscienze, cioè della ricerca di base. «Principalmente – spiega – cerco di comprendere i processi cognitivi, in alcuni casi anche neurali, che sono alla base di specifici comportamenti sia nella popolazione generale che in specifiche popolazioni di riferimento come quelle cliniche. A tal proposito, una parte importante della mia ricerca è focalizzata sull’autismo. In parole povere, un comportamento qualsiasi, come ad esempio evitare un ostacolo quando camminiamo, è determinato da un amplissimo numero di fattori cognitivi, motori, percettivi, attenzionali, motivazionali: quando vediamo una differenza di comportamento tra soggetti con e senza autismo, il nostro ruolo è capire quali di questi processi di base determina la differenza nel comportamento. È una differenza percettiva, motoria o attenzionale? Cerchiamo insomma di capire le basi soprattutto cognitive e neurali delle differenze comportamentali in soggetti neurotipici e in quelli con autismo, facendo un setting sperimentale controllato in cui possiamo manipolare specifiche variabili e raccogliere un amplissimo numero di dati che, analizzati con tecniche avanzate, ci permettono di capire qual è il contributo di ognuno dei fattori che assieme determinano il comportamento». Insomma, si cerca di capire cosa ci sia alla base del diverso comportamento delle persone affette da disturbi dello spettro dell’autismo rispetto agli altri: «Chi si occupa di ricerca applicata andrà poi su queste basi a costruire i propri modelli e interventi clinici. Studiare le basi cognitive dell’autismo ci permette inoltre di studiare come queste siano diverse all’interno dello spettro stesso della patologia: non solo, dunque, differenze tra soggetti neurotipici e con autismo, ma anche all’interno dello spettro stesso dell’autismo».
Un percorso accademico tra Inghilterra, Cina e Norvegia, Paesi dagli stili profondamente diversi, quella del dott. Pirrone: «Esatto, quindi una esperienza abbastanza eterogenea per culture, non solo in termini generali, ma anche in ambito strettamente accademico: ad esempio, l’ambiente di lavoro in Cina è più frenetico mentre in Norvegia è più rilassato. Ma poi la ricerca è il punto di unione tra questi tre mondi: la ricerca è omogenea, tutto il resto è eterogeneo, soprattutto se si fa il confronto tra Paesi come Cina e Norvegia».
La Cina è sicuramente il mondo più distante dal nostro occidentale, e lì «la difficoltà fondamentale è la burocrazia, che è a livelli incredibili persino per noi italiani. L’università di Pechino – la più importante di tutta la Cina e una delle più importanti al mondo – si sta internazionalizzando, ma è tuttora una università cinese, in cui la lingua principale è il cinese, anche se stanno utilizzando l’inglese sempre più per attrarre persone dall’estero. Tuttavia, per gli stranieri avere a che fare con la burocrazia è veramente complicatissimo: ci vuole una persona che ti aiuti in tutto il processo. Questo è l’ostacolo più grande, poi però, non so se perché riesco ad ambientarmi bene, tutto il resto è stato abbastanza semplice. Certo, lì le differenze culturali sono immense, nei rapporti col capo, coi colleghi, nei rapporti sociali. In Norvegia o in Inghilterra, ad esempio, il capo è un primus inter pares, mentre in Cina le relazioni sono molto più verticali, c’è una gerarchia severa e bisogna sapersi adeguare, anche se noi occidentali riceviamo un trattamento preferenziale e il mio capo cinese, che aveva studiato in Inghilterra per anni, utilizzava con me un stile più easy». All’estremo opposto, invece, l’ambiente di lavoro in Norvegia: «Molto rilassato e amichevole, riflette lo stile di vita norvegese improntato alla ricerca di felicità, pace, relazioni piacevoli. Sono arrivato a marzo, ma finora è stata una esperienza altamente positiva, mi sento a casa». Burocrazia, ovviamente, praticamente azzerata, «anche se mi fa ridere il fatto che i norvegesi si lamentano della loro burocrazia. In realtà qui è tutto molto semplice, chiaro, informatizzato: è bellissimo, non ci sono file, è tutto molto tranquillo».
Conseguita la laurea, dunque, un percorso tutto all’estero quello del ricercatore siciliano, che però rifiuta la definizione di “cervello in fuga”: «Fuga è una parola con una connotazione negativa, significa trovarsi in un posto dove non si vorrebbe essere. A me sono piaciute molto queste esperienze di vita, anche se mi piacerebbe potere tornare in Italia prima o poi. Purtroppo, le opportunità di carriera nel nostro Paese sono oggettivamente minime, soprattutto se confrontate col panorama europeo o americano. Quindi, più che un cervello in fuga mi sento semplicemente un ricercatore all’estero». Difficile tornare in Italia, dove «la ricerca è eccellente, ma le opportunità di carriera sono molto limitate. A partire dal basso: pochissimi studenti di dottorato in Italia riusciranno un giorno ad entrare di ruolo in una università. E bisogna fare i conti con questa realtà, onde evitare delusioni. In Italia gli investimenti nella ricerca sono molto scarsi rispetto a quelli di un qualsiasi Paese europeo, il turn over è minimo, e poi il nostro Paese non è attraente per dottorandi e post doc (italiani e stranieri) perché i salari sono molto bassi. L’Italia non riesce quindi ad attrarre ricercatori esteri e in molti casi non riesce a tenersi neanche gli italiani». Tanto è vero, anche a riprova della validità degli studi in Italia, che in qualsiasi ateneo del mondo c’è sempre una folta comunità di ricercatori italiani: «L’università italiana – conferma il dott. Pirrone – forma ad altissimo livello. Poi però fa andare via i ricercatori, non dando opportunità».
Tante le soddisfazioni professionali, ma «principalmente l’università dà una libertà che nessun’altra professione consente, soprattutto nell’ambito intellettuale: si è liberi di seguire i propri interessi, approfondire, organizzarsi in un progetto di ricerca secondo il proprio volere. C’è il piacere dello studio, dell’approfondimento, della conoscenza: ed è particolarmente eccitante per me dovermi sempre aggiornare sulle ultime tecniche, scoperte, sviluppi nelle scienze cognitive e nelle neuroscienze. Questo è veramente ciò che amo fare, ed è fantastico».
Senza dimenticare mai la Sicilia: «Sono sicuro – ammette però – che vivere in Sicilia e andarci solo per la festa del paese siano due cose completamente diverse. Io vado solo per le festività, per trovare i parenti, per le grandi occasioni, quindi il mio rapporto è assolutamente positivo. La Sicilia la vivo più nei rapporti sociali con mio padre, mia madre, i miei nonni, i miei cugini che sono siciliani, e quindi vivo la sicilianità nei suoi aspetti positivi e più belli. Certo, sono consapevole delle limitate opportunità di lavoro che offre ai giovani, ma la mia Sicilia è la famiglia, paesaggi stupendi, cibo eccezionale, persone calorose, è la Sicilia famosa nel mondo».
Ai giovani italiani, forte della sua esperienza di cittadino del mondo, non può che consigliare, «forti della nostra grande cultura unica al mondo, di non guardare con diffidenza ad altre culture: non bisogna avere paura delle differenze, perché alla fine quello che conta – e vale in tutto il mondo, l’ho notato ovunque – sono i rapporti con gli amici, con la famiglia, nel lavoro. Ogni cultura, ogni Paese ha poi le proprie caratteristiche, ma molto semplicemente ci si adatta. Consiglio allora ai giovani di non pensare troppo alle differenze e fare il più possibile esperienze che li accrescano professionalmente e umanamente. Perché poi arriva il momento in cui uno vuole trovare anche un po’ di stabilità». E il dott. Pirrone, molto concretamente, è conscio che non è detto che tale stabilità per lui possa essere in Italia: «La carriera accademica è una carriera di nomadismo assoluto. Oggi ho un contratto per tre anni in Norvegia: potrei fare dei piani ma sarebbe completamente inutile, in tre anni tutto può succedere e poi tra tre anni, quando finisco qui, dovrò valutare le opzioni disponibili. E se non ce ne sarà neanche una in Italia, non potrò tornare». Continuando così a provare nostalgia per «gli affetti, gli amici, soprattutto la famiglia e ogni tanto anche per i sapori del mio Paese» e nessun rimpianto invece «per la feroce competizione, vista la scarsità di risorse, presente nel panorama universitario italiano, a fronte dello stile collaborativo nella ricerca che c’è in Norvegia».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA