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Mafia, oltre 2 milioni a familiari del ragazzino sciolto nell’acido

Di Redazione |

PALERMO – Condannati anche in sede civile per l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, i boss non pagheranno un euro, visto che il loro patrimonio è sequestrato; ma l’entità della somma, 2,2 milioni che saranno versati alla mamma e al fratello della vittima, e le motivazioni del giudice di Palermo Paolo Criscuoli, fanno giustizia su uno degli omicidi più efferati di Cosa Nostra.

Giuseppe fu rapito a Piana degli Albanesi il 23 novembre 1993, quando non aveva ancora 13 anni. Un commando che indossava divise delle forze dell’ordine disse al bambino che sarebbe stato condotto dal padre, Santino Di Matteo, mafioso pentito che in quei giorni aveva cominciato a collaborare con la giustizia inchiodando, fra l’altro, il feroce Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, paese del Palermitano dove Giuseppe morirà, sciolto nell’acido, 779 giorni dopo il suo sequestro.

La mamma della piccola vittima, Franca Castellese, e il fratello Nicola avevano già ricevuto 400 mila euro di provvisionale dopo il processo penale, denaro che sarà sottratto ai 2,2 milioni ora stabiliti dal giudice in seguito al procedimento civile che si è aperto nel 2015. Criscuoli scrive che «è stata lesa la dignità della persona, il diritto del minore a un ambiente sano, a una famiglia, a uno sviluppo armonioso, in linea con le inclinazioni personali, ad un’istruzione. Beni ed interessi di primario rilievo costituzionale che, pertanto, trovano diretta tutela, anche risarcitoria». La condanna riguarda il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, Benedetto Capizzi, Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e il pentito Gaspare Spatuzza.

La mamma di Giuseppe decise di denunciare la scomparsa del bimbo alle forze dell’ordine soltanto venti giorni dopo il rapimento e lasciando passare due settimane dalla prima minaccia scritta recapitatele per posta: una foto del figlio che tiene in mano una copia del quotidiano «Il Messaggero» con la data del 29 novembre ’93 e un biglietto intimidatorio nei confronti del marito.

«Le condizioni del rapimento – aggiunge ancora nella motivazione il giudice – hanno di fatto del tutto soppresso i diritti del minore; massimo quindi il grado di lesione. Ancora prima dell’omicidio il Di Matteo, tredicenne, è stato privato della libertà personale per oltre due anni. Tale circostanza, in relazione alle inumane e degradanti condizioni di prigionia (si disse il piccolo aveva trascorso gli ultimi sei mesi in una botola ricavata sotto il pavimento di un casolare di campagna, ndr), tanto più in considerazione dell’età del soggetto rapito, rendono di primario rilievo il pregiudizio patito dal Di Matteo».

Altri bimbi sono morti negli ultimi decenni dopo essere finiti nel mirino della mafia, a seguito di ritorsioni o perché involontari testimoni. Tra questi, Claudio Domino, undici anni, ucciso a Palermo nel 1986, probabilmente per aver assistito ad uno scambio di droga.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA