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Elisa Messina, una vita in musica tra palco, didattica e terapia
«Una delle principali ragioni per cui gli esseri umani cantano e ballano, è il bisogno di liberazione estatica e di catarsi terapeutica». Parola di Jules Evans (“Estasi: istruzioni per l’uso – Ovvero l’arte di perdere il controllo” (Carbonio Editore). Elisa Messina, in arte Louça Fina, lo sa bene. Lei, artista a tutto tondo, chitarrista con i Babil On Suite, turnista e percussionista, musicoterapeuta, che la sua passione profonda l’ha voluta sperimentare nei Sud del mondo.
«Sono una sognatrice ma sono anche molto pragmatica, per cui, anche il Campus artistico che stiamo realizzando, con un numero ristretto di bambini in ossequio del recente decreto-sicurezza anti-Covid, serve ad esorcizzare quello che i ragazzi hanno subito dall’isolamento da lockdown. E infatti, in questo momento si parla sempre più di outdoor education, cosa che da anni noi proponiamo con attività di teatro, arte ed eventi di divulgazione esclusivamente in natura». Elisa parla di Dendron, l’associazione culturale che opera a Valverde, in provincia di Catania, dove mette al servizio dei bambini le sue capacità di insegnante di Musica e Propedeutica musicale, specializzata a Roma nel metodo Orff-Schulwerck (insegna in varie scuole tra cui la primaria Linus di Catania) e dove può trasmettere la sua conoscenza. «Mi piace lavorare con numeri piccoli e una qualità molto alta, pur venendo da una pedagogia di frontiera. Ho iniziato in prima linea, sono stata in Sri Lanka per due mesi di laboratorio musicale con ragazzini che venivano dal fronte di guerra, e poi in Brasile». Elisa, insomma, sogna, ma i suoi sogni non li svende. Semmai, li interpreta e li realizza.
Uno dei tuoi miti è Tiziano Terzani.
«Avevo letto le sue “Lettere contro la guerra”. Ricordo che quando sono partita c’era in me una grande voglia di andare e allo stesso tempo la paura legittima di ritrovarmi ad operare in un fronte di guerra».
Il risultato?
«Racconto un aneddoto. Ho memoria indelebile di me che finisco il corso, mi viene a prendere un fuoristrada per portarmi all’aeroporto e questi bambini corrono dietro all’auto per salutarmi. Un momento così intimo e così forgiante della mia esistenza. Penso ai bambini che mi toccavano in quest’orfanatrofio dove sono stata. Non avevano mai visto una persona bianca. Dicevano nella loro lingua: guarda, è rosa, è bianca… Poi ho lavorato anche a San Cristoforo, a Librino, al Midulla. Due, tre anni fa, quando mi sono diplomata in Musicoterapia, ho capito che avevo fatto un percorso di didattica attivista, che mi ha portata a un operato più sottile, a un’energia diversa, e ho cominciato a lavorare di più sulla crescita personale di sostegno e cura profonda».
Vivendo il tutto tra musica e natura.
«Quando ci si ritrova, per forza di cose, chiusi per due, tre mesi in un appartamento, ci rendiamo conto di quanto influisca la questione urbanistica. Abbiamo tanti servizi, tante comodità, però la pandemia io l’ho passata a contatto con la natura, senza tv, ho avuto la sensazione di come la scelta della domus abbia lasciato indietro la Natura, la possibilità di avere un rapporto più libero, di contemplazione. Con i ragazzi abbiamo cominciato le attività di giardinaggio, mi faccio aiutare a togliere le erbacce dall’orto, coinvolgendoli anche da un punto di vista responsabile. Al momento in cui sentono propria una location o una creazione artistica, una canzone composta da loro, accresce il senso di appartenenza e si crea una motivazione più stimolante. E’ l’educatore, il maestro che fa la differenza. Io ho fatto una scelta di vita che va tra la performance, il palco che mi dà tanto, la parte artistica che non è scindibile dalla parte terapeutica e didattica. Fino a qualche anno fa trovavo delle dicotomie difficili da giustificare, la vita notturna non combacia con quella della didattica, adesso ho trovato un mio equilibrio».
E lo trasmetti anche ai ragazzini che ti seguono con entusiasmo, come quando ti vedono imbracciare una chitarra elettrica.
«Oggi abbiamo fatto teatro delle marionette con musiche suonate dal vivo. Anche la terapia può essere performativa. Prendo le parti sane e le restituisco in forma estetica. Se hai un limite motorio, noi balliamo e danziamo con le mani, se hai un limite cognitivo, utilizziamo il corpo. L’arte ci permette di restituire tutto in forma estetica e lavorare con la bellezza. Alla musica bisognerebbe dedicare almeno 10 vite. La musicoterapia è un percorso che io consiglierei a tutti i miei colleghi a prescindere da quello che faranno. E’ un modo per lavorare su se stessi. Il terapeuta di base deve-MUST lavorare molto su se stesso prima di affrontare qualunque terapia».
L’artista soprattutto.
«Sì, in questo caso lavori molto sull’ego, perché la “rockstar” deve avere un grande ego, ma non è necessario escludere la semplicità e l’essere genuini. La musica ci ha dato tanti esempi di personaggi grandi e controversi, combattuti, che hanno logorato la loro vita e la loro carriera pur rimanendo nella storia della musica, penso a Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison…».
Il club dei 27enni “maudit”.
«Penso che tutti, a un certo punto della nostra vita, avremmo voluto essere un divo, una rockstar. Io suono anche la chitarra elettrica e dieci anni fa ho creato una rockband femminile, le Valkyrje, e farsi strada in un ambiente professionale con preponderanza maschile non è stato semplice».
Forse i ragazzini che rimangono a bocca aperta quando ti vedono suonare una chitarra elettrica non conoscono la storia delle Runaways, di Lita Ford e di Joan Jett…
«Non c’è nemmeno il contesto. Bazzicando tra lo stage e la didattica, mi accorgo che i modelli sono così diversi, e le proposte musicali che faccio ai miei ragazzi appartengono ai miei ascolti, rock, blues e funk. Però rappresentano una possibilità di evasione dalle regole che mi permette di farli “trasgredire”. Effettivamente i gruppi storici del rock come i Led Zeppelin, i Queen, usano linguaggi lontani da questi ragazzi. Puoi farglieli conoscere ma non ci si identificano tanto quanto accadeva a noi o alla generazione prima di me che li ha vissuti».
Oggi è più difficile fare la storia.
«Ora ci sono gli influencer. Una volta si andava ai concerti, ti dovevi trovare nel posto giusto al momento giusto per farti notare da un produttore, oppure dovevi possedere quell’X factor, quel quid, che ti diversificava e ti permetteva di esprimerti con un linguaggio nuovo. Si punta all’immagine. Anch’io, da artista vanitosa, ho il mio ego ma non punto tanto a cercare followers, preferisco vivere l’adrenalina del palco e l’interplay con i miei colleghi. Una sensazione irrinunciabile».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA