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Il Rosario dei Defunti, rito corale e simbolico
«Lu primu misteru lu vuoiu accuminzari, ca l’armi santi su misi an- priciuni, su misi an- priciuni e nun ci puonu stari» … inizia così una preghiera ormai quasi del tutto dimenticata: il Rosario dei Morti. Veniva in passato recitato soprattutto in prossimità della ricorrenza dei defunti per liberare i propri cari dalle pene dell’inferno. Ma quella, come vedremo, non era la sua unica funzione. Pregare ancora oggi ha una duplice scopo che coinvolge l’individuo su due piani, quello intimo e personale, che cerca di stabilire una sorta di legame tra sé e l’entità superiore e quello corale che rinforza legami e rinsalda alleanze sociali.
Il Rosario assolveva ad entrambe le funzioni. La recita del Rosario dei Morti, infatti, ripetuto coralmente è forse un retaggio di quel pianto funebre sul quale tanto ha indagato il maestro e antropologo Ernesto De Martino. Lacrime e recita del Rosario come fatto sociale che collettivizza un dolore nato come fatto individuale. In questo contesto grande importanza assumeva anche il pianto. «Ora cianciemu arrè, cianciemu tutti».
Le lacrime parlano il «linguaggio della tristezza» e segnano il legame tra i vivi e i morti. Morti sì, ma mai del tutto, se proprio nella ricorrenza del giorno dei defunti ricordano a chi rimane che di loro e delle loro preghiere essi hanno sempre bisogno. «Ci riciemu na posta ri Rusariu a dunucciuni? Na posta ri Rusariu nun ni fa nenti, e i rufriscamu tutti l’armi santi» […] «Cu na posta ri Rusariu ca ci rici, u levi ri ddi peni e ri ddu luocu». Il legame rimane. Chi se n’è andato non scompare per sempre. La sua è una condizione di non-presenza. Non di assenza. Una condizione che Ernesto De Martino auspica e che si può ottenere se l’esperienza della morte, intesa come assenza, si modifica in non-presenza.
Si tratta di un doloroso, ma necessario percorso che l’antropologo spiega con l’espressione «far morire i morti in noi». Il significato più profondo del Rosario dei Morti è anche questo: liberare chi resta dal legame morboso che tiene in vita i trapassati e che non libera dall’angoscia della morte chi resta in vita.
«L’armi santi su misi an- priciuni, su misi an- priciuni e nun ci puonu stari, ammienzu vampi ri fuocu e tantu arduri». Coralità e individualità. Un percorso binario che sottolineava una relazione tra un dare e un ricevere. Recitare il Rosario dei Morti in maniera corale per confermare alleanze: la comunità si riconosceva in quella pratica, ritrovava i propri punti cardinali e li rispettava, ma a livello individuale rinveniva il suo significato nell’incoraggiare chi pregava a lasciare andare il proprio caro restituendogli quella pace che la morte assicura. «Cu na posta ri Rusariu ca ci rici, u levi ri ddi peni e ri ddu luocu». Quel luogo è proprio la condizione che non fa vivere serenamente chi resta. Quel luogo è il luogo del rifiuto della morte, della non accettazione che intrappola chi vive nella negazione dell’evidenza.
Il percorso suggerito da De Martino, quel «far morire i morti in noi» è la via più difficile da seguire ma è anche quella più salvifica perché ristabilisce equilibri e calma l’animo. La recita del Rosario diveniva allora vero e proprio rito assumendone la funzione più intrinseca: trasformare un fatto destabilizzante, come la morte, da una condizione incontrollata e farla convergere riplasmata su forme controllate. E di più: recitare il Rosario contribuiva a ristabilire l’equilibrio tra cultura e natura. La cultura intesa come insieme di leggi, precetti, e norme che regolano la comunità e che costituiscono anche il corpus delle tradizioni di un popolo, capace di plasmare la natura del singolo.
La recita del Rosario era sì elaborazione corale dunque, ma aveva grande funzione proprio nell’elaborazione del lutto individuale. Contribuiva forse ad armare l’individuo nella continua lotta tra razionale e irrazionale, aiutandolo a non perdere il compito che gli conferisce la qualità di uomo, ovvero, quella di essere un entità che agisce secondo propri valori e scelte. Operazione delicatissima accompagnata da un duro travaglio interiore che permette di giungere alla razionalizzazione di quella forma di assenza totale che risiede nella morte.
Leggendo il testo del Rosario dei Morti dunque se ne evidenzia il linguaggio simbolico: le fiamme, il fuoco, la prigione, che si discosta dal linguaggio della gioia della vita. Ma è proprio nel codice del simbolico che si stabilisce un sistema di significazioni che rimandano a un comportamento convenzionale teso al superamento della crisi del cordoglio.
Il Rosario dei Morti è una preghiera complessa rivolta, insomma, alla comunità e al singolo individuo che punta più a valorizzare la vita esorcizzando la morte. Il Rosario è, infine, un’esortazione a vivere al meglio la vita poiché è destinata a finire: «Pinzamici, pinzamici a la morti, ca chistu è passu c’ama fari tutti…».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA