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Omicidio a San Cataldo, l’ombra del racket del caporalato sul delitto di Adnan

Di Redazione |

CALTANISSETTA – Era arrivato in Italia dal Pakistan cinque anni fa con la speranza di costruirsi un futuro, Adnan Siddique, 32 anni, assassinato a coltellate a Caltanissetta la sera del 3 giugno nel suo appartamento di via San Cataldo sembra, secondo gli investigatori che indagano sul delitto, per avere preso le difese di un gruppo di braccianti connazionali vittime del caporalato. E’ la pista più battuta dai carabinieri che nei giorni scorsi hanno fermato per il delitto quattro pakistani e un quinto per favoreggiamento.

Secondo le indagini, il pakistano avrebbe raccolto le lamentele di alcuni suoi connazionali che lavoravano nelle campagne e avrebbe accompagnato uno di loro a sporgere denuncia; prima dell’omicidio la vittima avrebbe subito minacce. Ieri è stata eseguita dal medico legale Cataldo Raffino l’autopsia sul cadavere. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultima è risultata quello fatale. Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri.

Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, e Imrad Muhammad Cheema, 40 anni e il connazionale Muhammad Mehdi, 48 anni, arrestato per favoreggiamento. Restano in carcere i primi quattro, il quinto è stato rimesso in libertà con l’obbligo di firma.

Secondo la ricostruzione dei carabinieri la vittima, che per lavoro si occupava di riparazione e manutenzione di macchine tessili, aveva presentato denuncia per minaccia nei confronti dei suoi carnefici. Adesso sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione, per procacciare manodopera nel settore agricolo, tra datori di lavoro e connazionali.

Versioni contrastanti

Intanto gli arrestati si sono difesi, offrendo però versioni contrastanti tra loro. Da un lato la versione di Mohammad Shoahib, 27 anni  che davanti al gip ha sostenuto di essersi recato, insieme al connazionale Shujaat Ali, 32 anni, nella casa di via San Cataldo dove Adnan viveva per discutere delle denunce per violenza privata che lo stesso Adnan e alcuni amici di quest’ultimo avevano presentato proprio nei confronti dei presunti assassini. «A un certo punto abbiamo iniziato a litigare – ha proseguito Shoahib – ed è stato Adnan a tirare fuori un coltello, io mi sono solo difeso, tanto che mi sono pure ferito alle mani».

Una versione un po’ diversa quella fornita, invece, da Shujaat Ali pure lui indagato per omicidio: «Mi sono recato insieme a Mohammad Shoahib a casa di Adnan, ma nel momento in cui lui è entrato in casa hanno chiuso la porta e sono rimasto fuori. Non so cosa sia accaduto lì dentro; poi, quando Mohammad è uscito, sono stato praticamente tirato di forza e siamo andati via, rifugiandoci in casa di Medhi Muhammad».

Anche Medhi Muhammad, 40 anni è stato interrogato; per lui l’accusa è solo quella di favoreggiamento visto che avrebbe messo a disposizione la sua abitazione di via Fornaia – a pochi passi da via San Cataldo – come nascondiglio per i sospettati.  Nel corso della sua deposizione il quarantenne ha affermato: «Non so nulla dell’omicidio, Ali e Shoahib sono arrivati a casa mia. Ho visto gli abiti sporchi di sangue, ma mi hanno detto soltanto di essere stati coinvolti in una lite. Subito dopo sono arrivati i carabinieri e ci hanno arrestati».

Sono invece stati interrogati per rogatoria ad Agrigento – essendo detenuti nel carcere Petrusa – gli altri due fermati per l’omicidio, e cioè Muhammad Bilal, 21 anni, e Imran Muhammad Cheema, 40 anni. Entrambi hanno sostenuto di non avere nulla a che fare con l’omicidio e che siano stati vittime di uno scambio di persona. Cheema, addirittura, ha affermato di non chiamarsi così e ha prodotto alcuni documenti che certificherebbero la sua vera identità.

Sogni spezzati

Adnan a Lahore, metropoli pakistana di 11 mila abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta lavorava come manutentore di macchine tessili e si era fatto degli amici. Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola. E con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro.

In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, conferma. «Era bravissimo, gentile – afferma – quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria».

Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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