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Antonio Catania: «Dalla Sicilia ho “succhiato” tanti personaggi. L’ho rifiutata ma ora torno tutti gli anni. Ecco il mio luogo del cuore»

Intervista con l'attore originario di Acireale che ora gli dedica una rassegna cinematografica

Di Ombretta Grasso |

Nel cuore ha l’opera dei pupi: il primo incontro con il teatro. «Il puparo Emanuele Macrì era straordinario, un maestro di recitazione perché era lui a interpretare tutti i personaggi… la voce tonante per Orlando, quella leggera per Angelica, un tono per ogni ruolo. Solo con la voce creava un mondo, emozionava. Per me è stato un inizio importante». Attore sensibile, battuta pronta, sguardo sveglio e mille sfumature, Antonio Catania è nato nell’Acireale nobile e barocca dell’opera dei pupi.

E da lì tira i fili della sua storia, in quelle vanedde di basolato dove passava i pomeriggi, tra la lapa e la piazza fitta di voci, in quella Sicilia da cui racconta di avere «succhiato tutti quei fenomeni folcloristici, quei personaggi stravaganti, pazzeschi, che c’erano: Nunzio setti cappeddi, Pisciacitu. Ma allora non avevo mai pensato di fare l’attore».

Come ha iniziato?

«Mi sono trasferito a Milano con la mia famiglia a 16 anni. Un amico mi ha trascinato alla Scuola di teatro Paolo Grassi e ci hanno presi tutti e due. Io frequentavo l’università e consideravo il teatro una cosa secondaria. Non avevo capito che di lì a poco mi avrebbe assorbito totalmente, che avrei lasciato tutto. Per dieci anni ho recitato con il Teatro dell’Elfo, ho lavorato con Franco Parenti, Stefano Benni, Paolo Rossi, Davide Riondino. Poi, è arrivato il film “Kamikazen” il primo con Gabriele Salvatores e da lì è iniziato il cinema, senza perdere di vista il teatro. Perché niente è come il contatto diretto con il pubblico».

La sua battuta “Minchia, ttri anni!!!” in “Mediterraneo” è ormai nella storia del cinema italiano.

«Un film fortunato, da Oscar. C’era un clima bellissimo sul set, sono legato a questa pellicola. Il mio tenente Carmelo La Rosa piomba sull’isola e scopre che il gruppo di soldati italiani non sa che la guerra è finita. Alcuni restano lì, altri ripartono, altri non credono nel Paese che sta nascendo. L’arrivo del mio personaggio è affascinante, è tutto molto magico, è un ruolo che mi è rimasto dentro».

Con Salvatores ha girato sette film, compreso l’ultimo “Napoli-New York”, scelto per la rassegna che le ha dedicato Acireale.

«E’ uno dei più belli secondo me, ha la dimensione di una favola con dei ragazzini bravissimi e Favino straordinario anche in questa occasione. Il mio ruolo si riallaccia, come ritmi e funzionalità, a quello di “Mediterraneo”: un personaggio carico di energia che porta un cambiamento. Ho scelto anche “Pane e tulipani”, “L’ora legale” di Ficarra e Picone, e un film meno noto ma premiato “La bella gente” di Ivano De Matteo in cui io e Monica Guerritore siamo i genitori di Elio Germano, una famiglia che non si dimostra illuminata come vorrebbe essere. I miei film? Mi piace molto “Il pasticcere”, un’opera coraggiosa di Luigi Sardiello, girata con mia moglie, Rosaria Russo. Con De Luigi ho fatto tante commedie, ci divertivamo tantissimo. Un bel duetto con Abatantuono nella serie tv “Il giudice Mastrangelo”. E poi il ruolo di Suro in “The Bad Guy” è quello che ho sentito di più. Mi ha dato più possibilità, più sfumature».

A Catania tornerà a maggio allo Stabile con il monologo “Azzurro”.

«E’ il percorso di vita del giornalista Curzio Maltese, tratto dal libro che ha scritto con la moglie Paola Ponte. Dall’infanzia all’arrivo a Milano negli anni di piombo, dagli inizi a Radio Popolare a la Repubblica alla malattia. Con Curzio eravamo amici. Lo spettacolo è intenso, fa ridere e commuovere».

Che ruolo vorrebbe interpretare?

«Un uomo in pensione che si rende utile, che salva qualcuno, scopre qualcosa, compie un atto eccezionale».

Nella serie cult “The Bud Guy” è il super latitante Mariano Suro, protetto dallo Stato, colto, intelligente, con la passione per Piero Angela.

«Una serie azzeccata, con un livello alto di scrittura, tutto fatto nel migliore dei modi. I due registi Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana sono bravissimi, con Stasi che firma la sceneggiatura con Ludovica Rampoldi e Davide Serino. Lo Cascio è un attore straordinario e la Pandolfi ha fatto un ruolo meraviglioso. Un lavoro bello, di quelli che ti godi, registi bravi, colleghi bravissimi».

Molte scene sembrano paradossali, ma in Sicilia la realtà supera l’immaginazione.

«Matteo Messina Denaro andava all’ospedale a farsi curare tranquillamente, nella serie c’è il pudore di fare tutto di nascosto, nel casale di campagna, già più ingenui rispetto a quello che accade nella realtà, più grottesca di qualsiasi azzardo di una serie tv. Si sottolineano i rapporti di corruzione con la magistratura con la politica, nulla di inventato. L’aspetto più interessante è la trasformazione di un magistrato in un “bad guy”, un cattivo soggetto. L’unico modo per catturare il simbolo del male era di diventare anche lui un mafioso. Suro il male l’ha già fatto, è pieno di malanni, ora è il momento di fare un po’ i conti, prende consapevolezza di aver sbagliato con la figlia, come genero non vede male neanche Scotellaro. Tutto è plausibile, è questa la grandezza della serie».

Con la Sicilia che rapporto ha?

«Vengo tutti gli anni. Ho attraversato un periodo di rifiuto all’inizio, quando sono arrivato a Milano. Poi, a poco a poco, ho riscoperto che tutto quello che c’era in Sicilia, nel mio paese, era prezioso. Mi ha dato tanto quel mondo da dove sono partito, mi ha arricchito. Poi ci sono l’aria, il mare, il sole, il cibo che ci sono anche in altri posti, ma meno belli. La Sicilia ti dà una grande quantità di emozioni, è una scoperta continua, ha una diversità, una ricchezza di luoghi, di colori».

Pregi e difetti dei siciliani?

«A Catania è tutto accelerato, impellente, vulcanico, il catanese ha voglia di correre. Ci sono ospitalità, rispetto, ma a Catania c’è anche il gusto della battuta, dell’ironia. Il palermitano è più pacato. C’è una grande apertura per chi viene da fuori. Mi ha colpito che ci sia un versetto del Corano nel Duomo di Palermo. Mia moglie è di Licata, con lei andiamo a Palermo e a Pantelleria».

E i difetti?

«La furbizia, la malizia. Si sentono tutti “sperti”. Avevamo aperto qualche anno fa una scuola di cinema a Catania ma non è stata un’esperienza positiva. Abbiamo fatto video, un format tv, pubblicità, incontri con tanti personaggi da Giorgio Tirabassi a Vincent Riotta. I ragazzi non imparavano mezza paginetta per fare una prova però volevano già lavorare. Non c’è umiltà, la colpa è sempre degli altri. Ci sono state altre difficoltà. Non ha attecchito, è una questione di mentalità. Ma la Sicilia è una terra fertile per il cinema, ha set straordinari, stanno venendo a girare in tanti».

L’Isola è invasa dai turisti, le sembra cambiata?

«Moltissimo, c’era già l’effetto Montalbano, poi “White Lotus” ha riportato gli americani. C’è da tempo un risveglio netto del turismo e anche i giovani sono più intraprendenti».

Cosa manca?

«Il carattere siciliano frena, l’iniziativa personale viene vista con diffidenza. Contano i favori, le conoscenze. Chi tiene in mano l’economia, la politica, dovrebbe cercare di incidere di più, di andare avanti».

Ha un posto del cuore?

«Ginostra, ci sono andato per tanti anni, quando non c’era la luce, l’acqua si prendeva dai pozzi. Un’atmosfera magica. Per me è il luogo più bello».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA