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Carmelo, l’ingegnere idraulico diventato panettiere per amore del lievito e della farina

Carmelo Santangelo, 37 anni, una laurea in ingegneria appesa alla parete per dedicarsi alla “magia” dei lievitati :«Il momento più emozionante quando sforno»

Di Carmen Greco |

Non è facile “rapire” Carmelo Santangelo per fargli raccontare un po’ di sé e della sua grande passione per il pane. Solo il lunedì, quando è giorno di chiusura (si fa per dire) e lui si trova in laboratorio per “rinfrescare” il suo lievito madre. In un’apparente inattività, quando non ci sono forni accesi e impastatrici a girare, c’è comunque un’atmosfera d’attesa in questo piccolo panificio di Valverde finito sulle guide gourmet nel giro di pochi anni.E dire che avere a che fare con acqua, farina e lievito, sembra tanto distante dalla laurea in ingegneria idraulica rimasta appesa alle pareti di casa.

«Durante il corso di studi – ricorda – mi sono appassionato alla pasticceria. Mia madre a casa faceva la crema, il pandispagna, cose che si fanno in tutte le famiglie… Io mi sono avvicinato, ho scoperto di avere una predisposizione ma, per come sono fatto io, volevo capire, andare fino in fondo, conoscere i processi della preparazione della sfoglia, di una torta… Mi stava stretto fare il dolce e basta. Dieci anni fa non c’erano tutti i tutorial che ci sono oggi su internet, così ho seguito un corso di pasticceria a Terni, pagato dai miei genitori e nel frattempo studiavo ingegneria all’Università di Catania».

La vocazione per il pane quand’è arrivata?

«Quando mi hanno presentato il lievito madre. Quando sono tornato ho cominciato ad applicarlo in tutte le sue forme e mi sono messo a fare delle prove in casa. Da lì ho applicato il lievito madre al pane finché parenti e amici non hanno iniziato a chiedermelo sempre più spesso “Perché non ce lo fai?”. Poi la cerchia si è allargata, ho cominciato a venderlo privatamente, ma non avevo ancora un progetto chiaro o, almeno, non lo sapevo ancora. Non si diventa panettieri facendo un corso, quello ti fornisce le basi, ma poi è l’esperienza quella che conta, tutti i passaggi li comprendi poco a poco, capisci dove sbagli, cerchi di migliorarti. Fare il pane per gli altri mi dava l’opportunità di “fare allenamento”».

Precedenti in famiglia?

«Nessuno, mia mamma faceva la maestra, mio padre lavorava all’esattoria. Mio nonno Carmelo faceva il pane in casa in un vecchio forno a pietra. Proprio qui dove oggi c’è il panificio c’erano due grandi botti perché faceva il commerciante di vino».

Quando ha capito che fare il panettiere sarebbe stato il suo futuro?

«Quando il vicino di casa mi ha detto che gli arrivava troppo fumo in casa dal forno sempre acceso (ride ndr). Diciamo quando ormai c’era una clientela consolidata e lì mi sono deciso a ristrutturare la vecchia bottega del nonno e ho capito che la mia vita sarebbe stata fare il pane (e i dolci). Ma non ho mai fatto il passo più lungo della gamba: ho messo in pratica quello che sapevo fare».

Un cambio di professione, ma anche un cambio di vita…

«È cambiato tutto, la notte lavoro anziché dormire. Mi alzo ogni giorno alle 2.30, scendo sotto (casa e “putìa” sono nello stesso edificio ndr), comincio a informare il pane formato il giorno prima, rinfresco il lievito madre, friggo le “bucce” dei cannoli, preparo la sfoglia… Nel pomeriggio preparo il pane che lieviterà tutta la notte, il giorno dopo inforno e così via, giorno dopo giorno».

Ma quanti siete?

«Io e un aiutante pasticcere, poi mi aiutano i miei zii e i miei genitori quando c’è più confusione».

Cos’è che fa un buon pane? L’acqua, la farina, il lievito, l’attesa…

«Un insieme di tutte queste cose. Il lievito madre non fa miracoli. Io lo definisco “il mio migliore amico”, si chiama “Ippolito” e me ne occupo da 8 anni».

Praticamente un bambino, se è vero che ne esistono di centenari…

«Ma questa è una scemenza. Se anche fosse, mantenerne le proprietà originali sarebbe un’utopia, basti considerare che tipo di farina si aggiunge per rinfrescarlo, con gli anni la natura del lievito cambierà completamente».

Che tipo di farine utilizza?

«Quelle di cui conosco direttamente il produttore. Farine siciliane di Timilìa, Russello, Maiorca Perciasacchi, Margherito, arrivano da Castelvetrano, quelle di grano tenero sono marchigiane e quelle più “tecniche” provengono da un mulino padovano».

Come hanno preso in famiglia la sua decisione di diventare panettiere?

«I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato. Mia moglie Daniele mi ha sempre spinto a farlo, vedeva che ero portato per questo».

Si ricorda l’emozione del suo primo pane?

«Certo. Il momento più emozionante è quando sforno. Il pane è sorprendente, non viene sempre lo stesso. Se vedo che viene più basso per me la giornata è rovinata…».

Davvero?

«Sì, ma nel senso che mi dico “potevi fare di meglio”. Il pane si impasta, si forma, ma fondamentale è la “puntatura”, cioè il riposo dell’impasto in massa prima di dargli la forma. Quel momento è fondamentale se è troppo breve il pane non cresce nel forno, se è troppo lungo si spacca… Ma tutto questo l’ho capito col tempo».

Dei suoi studi da ingegnere cosa s’è portato dietro nel forno?

«La capacità di risolvere un problema, l’organizzazione del lavoro, il metodo».

Cos’è il pane per lei?

«Per me è vita, ormai non potrei fare altro. È “il bene” di prima necessità. Quando c’è stato il Covid io mi sono sentito quasi in dovere di sfornare ogni giorno, non potevo chiudere, il forno era come un servizio pubblico. Si può vivere senza dolci, ma senza pane no».

La forma che la rappresenta di più?

«È un bauletto, lievitato in teglia e poi il “panfermento” con segale integrale, grano tenero integrale, semola di grano duro, farine parzialmente germogliate di orzo e riso, semi di zucca e altri semi che trovo al momento. Ci ho messo sette anni per trovare il giusto equilibrio».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA