Le motivazioni
Il “cold case” riaperto quasi per caso: ecco perché Guzzetta è stato condannato per l’omicidio Cinturino
Il delitto del settembre 1990 scoperto grazie a una impronta dimenticata
Il «compendio probatorio resiste alle censure difensive e converge in direzione dell’imputato come autore del delitto, aggravato dall’essere stato commesso con crudeltà». E’ la conclusione delle oltre 100 pagine di motivazioni depositati dalla Corte d’assise d’appello di Catania nella sentenza con cui, l’11 settembre scorso, ha confermato la condanna a 21 anni di reclusione per omicidio di Rosario Guzzetta, 53 anni, accusato di avere assassinato, nel 1990, strangolandolo con una corda in auto, Rosario Cinturino.
Delitto maturato nel mondo della droga
Secondo la ricostruzione della Procura, rappresentata in aula dal Pg Andrea Ursino, il delitto sarebbe maturato per contrasti tra i due nella spartizione di proventi derivanti dal traffico di sostanze stupefacenti.La vicenda sarebbe rimasta irrisolta se nel 2019, ventinove anni dopo il delitto, non ci fosse stata una svolta nel cold case dovuta all’archiviazione di dati di vecchi fascicoli della polizia scientifica da cui è emerso che sul luogo dell’omicidio erano stati repertati anche «due frammenti di impronte papillari». Uno di questi corrispondeva al «pollice della mano sinistra di Rosario Guzzetta, che era stato fotosegnalato nel dicembre del 1984 per rapina». Tutto portava all’indagato, che però risultava essere stato detenuto dall’ottobre del 1986 al gennaio del 1993. Ma, accertamenti disposti dal pool di magistrati della Procura coordinati dall’aggiunto Ignazio Fonzo ed eseguiti dalla Squadra mobile della Questura di Catania, hanno permesso di verificare che il giorno del delitto Guzzetta non era in prigione: aveva ottenuto un permesso premio dal 15 al 30 marzo del 1990 e quindi il 28 marzo di quell’anno non era nel carcere di Nicosia (Enna) dove era recluso.
Il perché della condanna
Secondo la Corte d’assise d’appello deve «affermarsi la responsabilità dell’imputato a titolo di concorso nell’omicidio» per «avere preso parte al delitto, certamente offrendo un contributo alla sua realizzazione, anche se non è stato possibile individuare i corresponsabili». Per i giudici Guzzetta ha «certamente assistito all’esecuzione materiale del delitto, tanto da riferirne alcune fasi cruciali: il “colpo di martello in testa” e il fatto che la vittima fosse stata “sepolta viva” nel bagagliaio dell’auto». Inoltre rileva la Corte ad accusarlo c’è anche «la presenza delle impronte nella Fiat Panda, ma in posizione particolare, difficilmente compatibile con un’ordinaria fruizione da parte di un passeggero che occupasse il lato destro».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA