L'INTERVISTA
Nino Frassica e il rapporto con la Sicilia: «Ovunque mi trovi, quest’Isola è sempre con me»
L'infanzia a Galati Mamertina, la svolta con Renzo Arbore, le serie tv, i libri: «Scrivere è una medicina»
Presentatore di défilé, animatore nelle feste di piazza, dj, direttore e vicedirettore di “Novella Bella”. Il nonsense di Nino Frassica è un modo di vedere la vita. Da frate Antonino da Scasazza al maresciallo Cecchini, le molteplici espressioni di una maschera comica che sa anche farci commuovere.
Ha scritto biglietti di auguri, appunti sui tovaglioli, cartoline. Adesso è il turno di “Piero di essere Piero”, il nuovo esilarante libro, edito da Mondadori Electa, con la prefazione di Demo Morselli e la sua orchestra.
«Ho sempre pubblicato libri legati al successo televisivo, stavolta invece è andata diversamente. Avevo voglia di scrivere e l’ho fatto. Solo, anziché parlando di un unico personaggio, com’è stato per “Paola, una storia vera”, ho raccontato una galleria di Pieri immaginari. L’obiettivo tuttavia rimane lo stesso: far ridere attraverso un racconto».
Cos’è per lei la scrittura?
«È totale libertà, non ho freni nel dare impulso alla mia immaginazione. Se giro un film o partecipo a un programma tivù, devo comunque far riferimento a una scaletta, a una sceneggiatura; se scrivo, invece, sento un impulso diverso che mi fa sentire, per l’appunto, libero».
Una comicità dell’assurdo che trae ispirazione dal quotidiano.
«Osservo attentamente la realtà che mi circonda e la deformo, la banalizzo, la violento, la manipolo, pur restando verità. Una verità letta alla luce del nonsenso, ma dove dietro c’è un gran lavoro umoristico».
Un estro creativo tipico di quel Sud, di cui lei è figlio. Qual è stato il suo primo palcoscenico?
«Quando, da bambino a Galati Marina, ho capito di aver ricevuto in dote un’indole “cazzara”, ho preso ad esibirmi. Allora i bar e i banconi si sono fatti palcoscenico. Osservare e ascoltare i discorsi della gente, quella è stata la mia vera palestra di attore. Ho pensato che bastasse rielaborare ciò che scorreva davanti ai miei occhi semplicemente teatralizzando il momento vissuto, così da ottenere un effetto comico».
Un ventaglio variegato di personaggi, accomunati dalla stessa meravigliosa coloritura.
«Quando posso, caratterizzo sempre i miei personaggi rendendoli più simili e vicini alle mie radici. È un fatto naturale. Se devo recitare e posso scegliere o dare indicazioni agli sceneggiatori, preferisco essere me stesso: quindi un siciliano con la propria cadenza che, ogni tanto, si lascia scappare qualche frase nel suo dialetto».
Sempre e comunque la Sicilia. Ovvero?
«La Sicilia è casa, è il luogo i cui mi rilasso e mi riposo. Ovunque mi trovi, c’è tutta la Sicilia sempre con me, le mie origini, i miei ricordi. In Sicilia sono nato e diventato uomo. Sul piano della crescita personale, non avrei avuto alcun bisogno di spostarmi dalla mia terra. Ma, non essendoci molte opportunità di lavoro, le ho cercate altrove».
Da un piccolo paese della provincia di Messina a respirare la grande bellezza della capitale. In una valigia d’emergenza: mutande, calze, un cambio d’abito, la spillatrice, il dentifricio… e poi cosa non potrebbe mancare?
«La musica e un foglio con la penna. Potrei non leggere un libro, il giornale, guardare la tivù, però la musica da qualche parte la devo sentire. Se non ascolto musica, non trascorro una buona giornata. Lo stesso dicasi per il foglio e la penna. Se mi viene un’idea all’improvviso, la devo poter subito segnare. Non avere la possibilità di fissare su carta un’intuizione, è un pensiero che mi disturba. Se mi trovassi sperduto su un’isola deserta, le prime richieste sarebbero carta, penna e giradischi».
L’ascolto dei cantautori italiani, il rhythm and blues americano di James Brown e la grande passione per la radio.
La nascita delle emittenti private negli anni Settanta è stata fondamentale per chi come me abitava in un piccolo paese di provincia e non si sognava minimamente di potere fare la radio, tantomeno la televisione. La radio privata è stata la finestra che mi ha permesso di affacciarmi nel mondo dello spettacolo e di vivere le prime esperienze sul campo. Nello stesso periodo ho provato a fare cinema a Roma, ma mi offrivano qua e là qualche posa. Nulla di più. Per cui sono tornato a Messina arrangiandomi con spettacoli di cabaret e presentando eventi dal vivo».
Nessuno che capisse la sua comicità?
«La svolta è arrivata con Renzo Arbore. Lo chiamai più volte ma, per incuriosirlo, non lasciavo il mio numero e non dicevo né come mi chiamassi né cosa volessi. Poi lui mi disse di andare a trovarlo quando fossi passato per Roma. L’indomani – il caso volle – mi trovai a passare per Roma».
Arrivano la promozione in squadra con “Quelli della notte” e la partecipazione da protagonista a “Indietro tutta!”.
«Era improvvisato al 98%. Non sapevamo cosa avremmo fatto il giorno dopo ma, per sessantacinque volte, siamo riusciti a realizzare un’ora di comicità e divertimento».
Il contatto diretto con la gente, nessun filtro, gli umori della platea. Cosa vuole il pubblico?
«La gente è stanca di vedere sempre le stesse cose, di sapere già come andrà a finire. Vuole in pasto la novità. Allora il comico, pur continuando a stuzzicare la vanità insita nelle persone, deve spiazzare. Se racconta sempre la stessa barzelletta, non fa più ridere».
Smessi i panni del popolare personaggio televisivo, davanti allo specchio la verità di un uomo logorato dallo stress e dalla vita frenetica. È riuscito a trovare la sua personale ricetta della serenità?
«Mi piacerebbe rallentare il tempo, addirittura fermarlo, se potessi. Da grande ho compreso che la felicità è prima di tutto stare bene e sapersi accontentare di ciò che si ha. Se desideri quello che hai, sei apposto, non ti manca niente. Hai al polso un bell’orologio e lo desideri? Sei felice. Apri l’armadio, ci trovi la giacca blu con le svolte e la desideri? Sei felice. Il trucco è desiderare quello che si ha già».
Attore, scrittore, cantante, arbitro a tempo perso. È stato mai sfiorato dal pensiero di poter essere messo in un angolo?
«All’inizio, il fatto che la gente mi riconoscesse per strada, che mi chiamasse per nome, mi piaceva. Mi faceva sentire importante. Poi è subentrata l’abitudine. Per carità, sono sempre contento della mia riconoscibilità, della notorietà di cui godo, ma agli esordi lo ero di più. Poi, come tutti quelli che fanno il mio mestiere, la paura di essere dimenticati è sempre lì dietro l’angolo. Allora l’affetto del pubblico, il calore del contatto, le richieste di foto e autografi mi tranquillizzano. E così mi rincuoro».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA