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La sottile linea nera

L’ombra del boss Sanzone dietro il delitto Tumino. Il suo nome in un appunto

La svolta. Il malavitoso vittoriese, ucciso nel ’91, figura in un’“inchiesta parallela” condotta dalla famiglia Spampinato e adesso all’esame dei pm

Di Carmelo Schininà |

«Sanzone, di Vittoria. Sono tre fratelli … il maggiore molto alto, spavaldo … sarebbe il capobanda, amico di Campria Roberto, avrebbe a che fare col delitto Tumino, forse ha sparato». Per la prima volta entra nel delitto Tumino il nome di un criminale vittoriese di alto profilo. Compare in un documento da poco ritrovato dall’ex giornalista della “Gazzetta del Sud” Giuseppe Calabrese nel suo archivio e che ora è stato consegnato in procura.

Calabrese fu il giornalista che nell’agosto dell’83 trovò sul luogo di un altro delitto, quello di Elisabetta Ciabani, a Sampieri, vicino a Ragusa, un biglietto scritto a mano finito nella commissione parlamentare antimafia che ha aperto una pista incredibile che arriva fino al mostro di Firenze. Il documento su Sanzone contiene altri elementi inediti che insieme a quelli svelati dalla nostra scorsa inchiesta “il Sotto Livello” e a quel poco che trapela dalla procura di Ragusa restituiscono un quadro molto più chiaro e dettagliato sull’omicidio dell’ingegnere. Si tratta di undici cartelle che nel 1990 Peppino Spampinato, il padre di Giovanni, aveva consegnato a Calabrese quando insieme al collega della “Gazzetta” Angelo Di Natale firmò la prima inchiesta in più parti sul caso. Undici fogli scritti a mano (non dal padre di Giovanni) che nel ’90 il quadro ancora troppo frammentato della vicenda non permetteva di approfondire. Si tratta di una sorta di “indagine privata” che la famiglia Spampinato aveva fatto tra il ’72 e il ’74, consegnata anche agli avvocati nel processo sull’omicidio del giornalista ma allora inutilizzabile perché la vecchia riforma della giustizia non prevedeva come accade oggi che le difese potessero svolgere indagini al di là degli elementi raccolti dal giudice istruttore.

Il nome riportato negli appunti è quello di Salvatore Sanzone. Nel 1972 aveva 34 anni, era stato già autore di alcune rapine, gravitava nella rete criminale di Vittoria che faceva capo a Giuseppe Cirasa ma agiva con una certa autonomia. Il suo vasto curriculum criminale annovera una condanna per omicidio e, in concorso col fratello minore, il sequestro di un notaio, un’evasione dal carcere di Favignana e una rivolta nel carcere di Salerno. Più lunga e perigliosa la storia criminale del fratello Pino Sanzone che nel 1984 indossando la maschera da collaboratore di giustizia firma un verbale insieme ad altri due pregiudicati nel carcere di Pianosa raccontando presunte connessioni tra il movimento neofascista di Avanguardia Nazionale ed esponenti della mala riguardo alcuni fatti accaduti tra il ’70 e il ’73 in Calabria. Su questi fatti Pino Sanzone sarà interrogato nel ’92 dal giudice Guido Salvini nell’ambito delle indagini su Piazza Fontana. Parliamo quindi di criminali a conoscenza di contatti tra la mafia e destra eversiva.

Pino Sanzone oggi sta scontando due ergastoli in differimento pena nella sua casa a Vittoria. Salvatore Sanzone invece verrà ucciso da una cosca rivale l’11 gennaio del 1991. Il suo nome non fu mai messo in relazione col delitto Tumino né ci sono prove di una sua conoscenza con Roberto Campria. Ma Salvatore Sanzone faceva molta paura e Roberto Campria in quel periodo aveva paura. Nell’appunto riferito a Sanzone si fa riferimento a una presunta “protezione” di cui il criminale avrebbe beneficiato tra gli inquirenti ragusani. Si legge: «Uno dei cinque mandati di cattura revocati potrebbe essere stato intestato a lui». Il riferimento è a una voce che all’epoca circolò negli ambienti giudiziari e finì anche negli esposti che il giudice Saverio Campria, padre di Roberto, fece al Csm (vedi cap. 3 de “Il Sotto Livello”). Si disse che durante le indagini per l’omicidio dell’ingegnere sarebbero stati spiccati dei mandati di fermo per 5 persone tra cui Roberto Campria poi revocati per riguardo al padre, presidente del Tribunale. A raccontarlo fu proprio Campria figlio a suo padre. Disse di averlo saputo dall’allora sostituto Fera che smentì seccamente.

Il giudice Campria denunciò l’episodio nel suo memoriale evocando una congiura dentro il Palazzo di Giustizia di Ragusa per fargli lasciare la poltrona. Quando la notizia dell’esposto finì sul giornale la procura smentì dicendo che non c’erano indizi a carico del giovane Campria sul delitto Tumino e il presidente fu messo in stato d’accusa dai colleghi. Quella notizia Campria l’aveva confidata a Giovanni Spampinato (lo ha raccontato il fratello Alberto nel suo libro) il 31 luglio del ’72 nel primo incontro chiarificatore tra i due, dopo il clamore degli articoli di Spampinato, cui il 2 agosto seguì una conferenza stampa indetta dallo stesso figlio del giudice per fornire il suo alibi sulla sera in cui Tumino sarebbe stato ucciso: «Era a casa della mia fidanzata a guardare il festival di Sanremo». Negli appunti finiti ora in procura c’è un altro passaggio importante dell’incontro del 31 luglio: «Roberto confidò a Giovanni che una volta era andato a “scavare” a Pietraperzia insieme a Tumino e a una comitiva di tombaroli notoriamente pregiudicati». Pietraperzia la troviamo nel fascicolo dell’omicidio del ’72. Tumino c’era andato diverse volte.

Ora, una vecchia regola tra tombaroli prevedeva che quando si scavava in gruppo e si trovava un “tesoro” la proprietà veniva divisa tra i presenti. Chi voleva vendere il pezzo per conto proprio doveva liquidare le quote agli altri “soci”. Un altro passaggio degli appunti dice che Campria in quel periodo aveva chiesto a una banca un prestito di 3 milioni che gli era poi stato negato. Da notizie stampa di allora emerge che Tumino nei giorni prima di essere ammazzato aveva con sé la somma di 4 milioni. Un testimone all’epoca vicino a Roberto Campria oggi ha raccontato che il presunto cratere lo si voleva acquistare per 7 milioni. È possibile che quei soldi, una volta verificato l’enorme valore del cratere attraverso Leone e Bottaro, servivano non all’acquisto del “pezzo di gran pregio” ma a Tumino (e Campria) per liquidare le quote di terze persone. Forse elementi di quella «comitiva di tombaroli notoriamente pregiudicati». L’ipotesi è che nelle settimane precedenti l’omicidio di Tumino ci fosse una trattativa sul cratere e su altro materiale archeologico. Una trattativa che ora appare essere stata molto turbolenta. Dagli atti di allora emerge come Campria un giorno fosse stato sequestrato da persone a cui avrebbe dovuto dare dei soldi e poi liberato dall’ingegnere corso in suo aiuto. Lo racconterà una detenuta al giudice istruttore Angelo Ventura nel ’73, dopo che Campria uccise Spampinato. E mentre il giudice cercava di scavare tra i traffici dell’ingegnere riceve una telefonata minatoria: «Giudice non faccia il cretino, è un avvertimento». Episodio che Ventura denuncerà al procuratore generale di Catania, emblematico delle pressioni in atto in quel momento.

Ma forse c’è di più, perché alla trattativa dei 7 milioni potrebbe poi esserne seguita un’altra con un prezzo molto più alto: circa 30 milioni di lire, stavolta forse per liquidare la quota di Tumino (e Campria). Trattativa, quest’ultima, forse utilizzata come inganno per sottrarre il cratere all’ingegnere e nella quale Campria potrebbe avere avuto un ruolo. Lo suggerisce il contenuto di un documento anonimo (vedi cap 4 de “Il Sotto Livello”), a proposito di assegni che un Mister X avrebbe intestato a Campria e che questi avrebbe girato a Tumino per farsi consegnare tramite Campria “oggetti d’arte”. Assegni che «non furono mai trovati perché l’ingegnere fu barbaramente e premeditatamente ucciso». Non è escluso che queste pressioni, trattative e giro di danaro potessero essere il motivo di quel famoso incontro a tre tra il Presidente del Tribunale, sua moglie e l’ingegnere Tumino la mattina del 25 febbraio (giorno dell’omicidio) visti discutere nella macchina del giudice. Altro elemento importante raccontato da un testimone oculare in un verbale del fascicolo del ’72: «Mi diede l’impressione di essere abbattuto, o meglio: un po’ depresso», disse il testimone riguardo a Tumino.

Che relazione esiste tra i traffici dell’ingegnere e l’incontro nella macchina del giudice? E che relazione esiste tra la presunta storia degli assegni e il contatto telefonico che emerse (sempre dal fascicolo dell’72) tra Roberto Campria ed Ernesto Dimarco il 26 febbraio a casa di Tumino? Quel pomeriggio il giovane Campria si trovava insieme a un’altra persona nell’appartamento dell’ingegnere. Qui rispose a due telefonate: una della sorella di Angelo Tumino (che voleva parlare col figlio di Tumino) e l’altra di Dimarco, il concessionario amico di Tumino che dieci anni dopo sarà tirato in ballo nell’indagine sul presunto segreto del cratere, a conoscenza solo di Tumino, Guarino, Campria e lo stesso Dimarco.

Reperti in cambio di sigarette la centrale del crimine ibleo

La pista possibile. Tumino forse ucciso per un prezioso cratere da utilizzare come contropartita per un “carico” del valore di ben 200 milioni di lire

Che relazione esiste tra la presunta consegna di “oggetti d’arte” al Mister X tramite Campria e l’uscita il pomeriggio presto del 25 febbraio (giorno del delitto) dell’ingegnere insieme a due persone che secondo i giudici del processo per falsa testimonianza furono proprio Roberto Campria e Giovanni Cutrone? Quel processo nato dalle indagini dell’omicidio rimasto impunito che si basava una presunta menzogna dei due sull’ultima volta che avevano visto l’ingegnere li fece condannare in primo e secondo grado ma impugnato dal solo Campria verrà poi smontato dalla Cassazione che disporrà un nuovo processo d’appello che lo assolverà nel 1979.

In un altro passaggio degli appunti ritrovati dal giornalista Calabrese si evoca uno scenario alternativo sull’uscita a tre di quel pomeriggio: «Un particolare inedito e significativo è rappresentato dal racconto di chi vide l’ingegnere il pomeriggio del giorno del delitto insieme a due uomini. I tre uscivano da uno dei magazzini di Tumino e si stavano sistemando a bordo di un’autovettura di media cilindrata (forse una 124 o una 125) targata Siracusa». Non sappiamo se questo passaggio si riferisce all’uscita pomeridiana raccontata dalla testimone Ilea che innescò il processo per falsa testimonianza oppure a un episodio accaduto in un secondo tempo, magari qualche ora dopo. Ma sappiamo che in quel periodo Giuseppe Cirasa aveva una 124 sport, lo scrivono anche i due finanzieri a proposito del rinvenimento dell’auto di Tumino. Quell’auto di cui non conosciamo la targa Cirasa la possedette davvero, acquistata attraverso un concessionario di Ragusa e intestata a un prestanome del boss. Non possiamo quindi escludere che Tumino possa essere salito anche a bordo di quell’auto.

Ma torniamo al presunto affare del cratere riannodando i fili, gli interessi e i ruoli dei personaggi di questa storia che emergono dagli atti: l’ingegnere missino Angelo Tumino, il rampollo della Ragusa bene Roberto Campria, il timido restauratore Salvatore Guarino, l’acuto concessionario Ernesto Dimarco, il pregiudicato Giovanni Cutrone e il pittore Vittorio Quintavalle. L’ipotesi è che in uno scavo clandestino a Pietraperzia Tumino avesse rinvenuto insieme ad alcuni tombaroli il famoso “pezzo di gran pregio” intercettato da Giovanni Spampinato nel suo articolo del 28 ottobre, quel cratere ora al centro della nuova inchiesta di Ragusa. L’ingegnere lo custodisce, lo fa “valutare” tramite il fotografo Leone all’esperto della Sovrintendenza alle Antichità di Siracusa Gaetano Bottaro e appresone l’inestimabile valore condivide il segreto, come suggerisce l’indagine dell’82, con Guarino, Campria e Dimarco. Forse si pensa di venderlo a qualche riccone della borghesia ragusana o di inserirlo in quel circuito raccontato da Messina Denaro che dal laboratorio di Centuripe (che forse Guarino conosce) arriva in America attraverso la Svizzera con l’aiuto di facilitatori come Gianfranco Bechina, il mercante d’arte finito nelle carte di Messina Denaro o Ettore Cicchellero uno dei più grossi contrabbandieri del secolo scorso residente a Lugano.

Bisogna trovare un accordo e liquidare le quote di terze persone presenti in quella “comitiva di tombaroli pregiudicati” nello scavo di Pietraperzia. Ma l’accordo non si trova e l’ingegnere viene ucciso. Nella vicenda colpisce il destino di alcuni presunti depositari del segreto: Angelo Tumino, assassinato, Salvatore Guarino folgorato in uno strano incidente, Roberto Campria carcerato dopo che uccide il giornalista, Giovanni Cutrone (ammesso che ne sia stato a conoscenza) arrestato per falsa testimonianza. Rimangono estranei Ernesto Dimarco e Vittorio Quintavalle. Secondo l’indagine dell’82 Dimarco avrebbe trattato la vendita del cratere in America ma quelle accuse non furono mai provate. Quintavalle dopo essere stato interrogato e perquisito tornò a Roma, di tanto intanto ritornando a Ragusa per affari. È morto nell’89. Che fine fece il cratere? A suggerirlo potrebbe essere la “solitudine troppo rumorosa” di Roberto Campria rimasto impigliato in una rete di affari poco chiari e in una lotta impari contro un mostro che aveva tre teste: l’arma di distrazione di massa che lo accusava di fronte alla società ragusana come l’assassino di Tumino, le trame forensi che il padre giudice denunciò al Csm e la paura che la stessa pistola utilizzata per uccidere il suo amico ingegnere fosse adesso puntata verso di lui.

La conferenza stampa del 2 agosto 1972, nella quale Campria per scrollarsi di dosso i sospetti di una intera città aveva fornito il suo alibi, ebbe come primo risultato, il giorno dopo, un articolo ineccepibile di Giovanni Spampinato che in qualche modo lo “scagionò” dai sospetti: «Campria, che molto probabilmente non ha nulla a che fare col delitto Tumino, torna nell’ombra». Ma forse agli assassini di Tumino faceva comodo un Campria sospettato. E così quella conferenza stampa invece di calmare le acque le agitò in una escalation di pressioni, paure ed esposti al Consiglio superiore della magistratura.

Nei 3 mesi che vanno da agosto a ottobre Campria e Spampinato si incontrano per parlare dell’omicidio Tumino: ognuno vuole sapere delle cose dall’altro. Campria gli promette rivelazioni sulla presunta congiura denunciata da suo padre, Spampinato vuole conoscere quale segreto tace Campria sull’omicidio Tumino. Poi il 24 ottobre per uscire dall’angolo nel quale si sente chiuso, Roberto Campria fa una mossa che finora non è mai stata messa in relazione all’omicidio dell’ingegnere ma che ora assume una luce nuova: si presenta da un maggiore della guardia di finanza, Carlo Galvano, al quale racconta di essere stato avvicinato da persone “insospettabili” che gli hanno chiesto di “distrarre” i finanzieri da uno sbarco di sigarette di contrabbando proveniente dalla Jugoslavia del valore di 200 milioni di lire. Il piano avrebbe previsto una stecca di 1 milione al finanziere da corrompere. Per lo sbarco sarebbe stata usata una nave peschereccio e lui, Campria, sarebbe stato ricompensato con 10 milioni da cui avrebbe dovuto detrarre la somma per il finanziere. Quindi si offre al maggiore come agente provocatore. «Gli dissi che avrei riferito ai miei superiori e che avrebbe potuto telefonarmi – metterà a verbale Galvano – lo avvertii che poteva correre dei rischi, lui mi disse che si sarebbe qualificato al telefono come Maurizio».

Ma il passaggio più importante è questo: Campria rivela a Galvano che le sigarette di contrabbando in questo tipo di operazioni venivano pagate con “oggetti d’arte”. Il figlio del giudice forse sta indicando la vera pista che si nasconde dietro l’omicidio di Angelo Tumino, ammazzato per alcuni reperti archeologici di grande valore che servivano ai contrabbandieri come contropartita per un grosso sbarco di sigarette? Ma c’è ancora dell’altro: confida pure che in un’altra occasione gli era stato «richiesto di portare una valigetta a Palermo dietro un compenso così forte da indurlo a sospettare che si trattasse di droga». Il figlio di Roberto nell’intervista esclusiva di un anno fa ci ha raccontato di aver saputo da suo padre che in quella valigetta dovevano esserci «documenti per incriminare la sinistra eversiva». Questi due elementi sono gli indizi dell’esistenza nel 1972 di una centrale criminale-eversiva in azione a Ragusa che incrociava anche la strategia della tensione: utilizzare i tesori dei reperti archeologici per finanziare il contrabbando non solo di sigarette ma anche di armi ed esplosivi di cui si servivano mafiosi e neofascisti. Caso eclatante l’attentato ai treni di Reggio Calabria del 22 ottobre del ’72 di cui è stata provata la matrice neofascista. La scoperta di questo presunto centro di potere deviato rimasto occultato per 52 anni era stata sfiorata da Giovanni Spampinato che intanto continuava a scrivere legando in un quadro eversivo di matrice nera gli sbarchi di sigarette, armi ed esplosivo nelle nostre coste alle bombe esplose tra Ragusa e Siracusa e alla figura del pittore-repubblichino Vittorio Quintavalle interrogato e perquisito per l’omicidio Tumino.

Cosa erano dunque quelle richieste fatte a Roberto Campria? Forse un modo per comprare il silenzio su quell’omicidio di cui sapeva sicuramente tutto? Chi erano questi insospettabili di cui non ha mai fatto i nomi? La mossa del 24 ottobre è forse l’estremo tentativo di Roberto Campria di uscire dal “cul de sac” in cui si è ritrovato. Va in scena tre giorni prima che uccida Spampinato. Forse accade qualcosa che innesca un’accelerazione. Qualcosa che si nascondeva tra le righe dell’ultimo articolo di Spampinato pubblicato su “L’Ora” il 26 ottobre, 24 ore prima del suo assassinio. Un articolo mai ripreso da nessuna inchiesta che abbiamo ritrovato all’archivio di Stato. Un articolo che riconduce a Vittoria e che riletto oggi è una bomba. In tutti i sensi.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA