Musica
Il cuore di “Petra Lavica” di Kaballà guarda al futuro: lo storico album rivive dopo 33 anni
E' stato rimastetizzato da un monumento dell’ingegneria del suono italiano: Fofo Bianchi, che ha lavorato per dare calore alla musica senza farlo diventare di plastica
Niente rimpianti. Forse soltanto un po’ di nostalgia, quel pizzico necessario a non dimenticare pur mantenendo i piedi piantati nel presente. Guardando al futuro.Kaballà, “Petra Lavica” fa il compleanno. Trentatré anni e non sentirli…«In tanti mi dicono: sai che io sono nato quando è uscito il tuo disco?…»Il tempo scorre, ma “Petra Lavica” non manca di attualità, anzi…«Un piccolo miracolo, mi è andata di culo!». Ride Pippo Rinaldi.
Non solo questo, dai, diciamolo senza paura di essere smentiti.«Sì, è vero. Direi che è anche una questione di visionarietà. A volte si anticipa anche troppo, e questo, ti confesso, mi è costato tanto soprattutto dal punto di vista della fama».Un artista troppo sensibile per aspirare al successo planetario. E troppo rivoluzionario per l’epoca. Pensiamo all’uso della lingua siciliana, a un certo tipo di fare musica, alla cura dell’immagine; pensiamo alla copertina, al video di “Petra lavica”.«Sì, mi sento proprio di dire che, per gli anni in cui il disco è uscito, parliamo del 1991, era una roba davvero rivoluzionaria».
Una sorta di manifesto che ti accompagna ancora oggi. Come la vivi l’eredità di questo disco?«Dal punto di vista artistico la vivo come una sorta di rinascita. Nostalgia? Soltanto un pizzico, preferisco guardare al futuro, Tant’è che ci ho messo due anni a pensare se era giusto farlo uscire o se puntare su un disco di inediti che non ho utilizzato perché, forse, volevo essere ancora più rivoluzionario, cosa che adesso è più difficile. “Petra Lavica”, ora, è una base su cui pensare ad altro e intanto fare conoscere questo progetto, che non ha perso la sua modernità, a tanta gente che non era nata allora ma che apprezza la buona musica. Con in più la qualità dell’ascolto che si è persa con il digitale e i telefonini. A rimasterizzarlo, poi, è stato un monumento dell’ingegneria del suono italiano: Fofo Bianchi, che ha lavorato per dare calore alla musica senza farlo diventare di plastica, evitando quell’effetto tranchant di certe operazioni di remastering che fanno brillare i suoni ma che allo stesso tempo li sminuiscono. Abbiamo rivitalizzato la confezione del disco. Abbiamo fatto un’operazione di “nostalgia del futuro”, per rubare una frase al mio amico Mario Venuti».
Citi Mario, altro elemento di quel clan dei siciliani che ha fatto e fa ancora grande la nostra musica Da Carmen Consoli a Luca Madonia.«Un clan che non è mai finito dal punto di vista dell’amicizia e della creatività. E’ per questo che a Catania ho invitato tutti gli artisti e gli operatori del settore dell’epoca, quelli che abbiamo vissuto questo momento magico, e allo stesso tempo i giovani che non lo conoscono ma che hanno voglia di ascoltare della buona musica».Trentatré anni, questione di “kabala”?«Mi era balenato in mente il trentennale, però c’era in me una certa ritrosia. Poi c’è stato il Covid che ha rallentato un po’ tutto. Perché la nostalgia? Io la “Petra Lavica” non l’ho mai lasciata, vestendola sempre in maniera diversa. Poi, c’è stato l’incontro con Fofo Bianchi, gli amici che mi hanno spronato e ed è capitato questo “33” che mi ha affascinato tantissimo a proposito di sogni e segni, con questo pizzico di esoterismo che si porta dietro il numero. Penso ai 33 anni di Cristo, al doppio 3. Visto che di Kaballà si tratta, sembra proprio che cada a fagiolo. E il cerchio si è chiuso. Anche questo mi fa essere originale rispetto alla massa, così come lo fu il disco: non 25, non 30, ma “Petra Lavica 33”. E’ una cosa che ci sta con la rivoluzionarietà di quel disco, con la musica, la copertina, il video, quel modo di farlo rivivere a 33 anni dall’uscita».All’epoca, fare le valigie e partire dalla Sicilia in cerca di gloria non era facile come oggi…«No, infatti nelle mie biografie dell’epoca parlavo di “esilio volontario”, mi sentivo una sorta di migrante che, senza rinnegare le radici, va a bussare a porte che allora da noi erano non tanto chiuse quanto totalmente inesistenti»Eppure, ti si sono aperte porte importantissime. Il primo nome che mi viene in mente è Massimo Bubola.«Già da diversi anni, prima di esordire con “Petra Lavica”, mi occupavo di musica, con Francesco Virlinzi, già scrivevo canzoni. Ma c’è stato questo incastro magico nell’aver trovato Gianni De Berardinis che aveva già un grosso successo radiofonico e in me trovò un talento ancora acerbo, e io scoprii in lui anche il musicista che si teneva dentro. E Bubola, che aveva già un percorso importantissimo, anche se giovane, nella musica d’autore italiana, che mi aprì la strada di quel “Creuza de mä” di Fabrizio De Andrè che per me è stata una stella polare. Ma perché De Andrè? Perché l’uso del dialetto fino ad allora era dignitosamente relegato alla musica folk, che aveva comunque prodotto cose molto importanti, da Rosa Balistreri alla Nuova Compagnia di Canto Popolare. Questa eresia di usare le lingue dentro la musica pop, rock, come elemento di contaminazione, dopo De Andrè fummo pochissimi a portarla avanti: io dalla Sicilia, i Tazenda dalla Sardegna, i Sud Sound System, i Pitura Freska, utilizzando le cosiddette lingue minori, base della nostra cultura».
E di tutta questa sicilianità, cosa ti porti dietro. Il tuo cuore è di “Petra Lavica”?«Beh, sì, ma sotto la “Petra Lavica” c’è materia attiva. Ha un cuore rosso pulsante. Mi porto dentro tutte le contraddizioni, il dolore di essere siciliani per certe cose che non ci piacciono, e allo stesso tempo la fierezza dell’esserlo, della nostra lingua, della nostra cultura. Nelle mie canzoni ci metto sempre un pizzico della nostra letteratura, dei nostri poeti, che poi ho trasferito, adattandomi, ad altri artisti, dando alla materia viva che mi viene offerta quella griffe, quell’imprinting che, quando scrivo, spero rimanga dentro a canzoni che scrivo anche per gli altri. Ecco cos’è la sicilianità per me, è un modo unico di esprimersi».Hai parlato di dolore, quale dolore?«Prima di tutto la sofferenza per la nostra gattopardianità, quel cambiare tutto per non cambiare niente, quella staticità che per noi è anche bellezza ma che spesso significa non dare merito alla nostra forza culturale, alla nostra identità. In quegli anni c’era anche il fenomeno mafia che per tanti di noi è stato un vulnus, una ferita, qualcosa che non ci rappresentava ma che diventava purtroppo, spesso, biglietto da visita della nostra terra. Nel Dna, comunque, sono siciliano e questo lo rivendico e lo porto in giro. Quando mi arrabbio, quando parlo con alcuni amici, mi esprimo in siciliano. La distanza è solo un fenomeno chilometrico».
Di buono abbiamo pure quel pizzico di genialità che ci contraddistingue. Penso al successo di personaggi come Ficarra e Picone, Teresa Mannino, Sergio Friscia, amatissimi al Nord.«Dipende molto dalla storia che abbiamo dentro, che è storia millenaria, fatta di incontri culturali, di accoglienza. Abbiamo accolto tanto, forse anche subìto, ma ci siamo nutriti l’anima di arabi, di normanni, di greci, di latini. Tutte queste culture si sono mischiate nel nostro modo di essere unici, diversi. Noi non siamo Sud, siamo Isola, senza togliere nulla alla potenza del sud Italia. Non lo dico per campanilismo, ma la nostra diversità è palese. “Petra Lavica” lo rappresenta. Il “piccolo stretto” è comunque troppo lungo, per quanto piccolo (“ma stu strittu è troppo longu, non si po chiù attraversari”) per poterci fare sentire tutti uguali: siamo siciliani».E le navi che in questi giorni fanno su e giù come in una sorta di surreale quanto amaro Gioco dell’Oca? Se anziché trasportare migranti le trasformassimo in boschiane navi dei folli?«Devo dirti la verità, mi interessa poco tutto ciò perché la trovo un’operazione stucchevole, propagandistica. Ci vorrebbero tante navi cariche di cultura, di follia, di genialità da mostrare e da scambiare. L’Italia ha i siti culturali più importanti del mondo, abbiamo poesia, letteratura, arte straordinaria e la Sicilia, come diceva Goethe, è la quintessenza della cultura italiana».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA