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L'intervista

Il Garante siciliano per l’Infanzia e l’adolescenza Vecchio: «I dati in crescita? È anche un segno positivo»

«Ufficio impotente: pochi strumenti, un’istituzione debole»

Di Mario Barresi |

Professore Vecchio, quanto la allarmano, da Garante regionale, i dati sui reati di cui in Sicilia sono vittime i minori?«Potrebbero avere anche un significato positivo, detto tra virgolette però. Così l’incremento del numero dei reati può derivare da una maggiore sensibilità delle vittime nei confronti di comportamenti penalmente rilevanti, lesivi delle libertà personali. Di tutti i tipi di libertà: non solo quella sessuale, ma anche di quella di autodeterminazione, che coinvolgono diversi tipi di reati e di strumenti di correzione. Ad esempio: se un figlio scegliesse di aderire a un gruppo politico che fa propaganda per la violenza, non importa il colore, un genitore fino a che punto può permettersi un’azione coattiva di limitazione dell’attività politica del figlio? Poi c’è anche un secondo elemento».

Qual è?«La maggiore propensione alla denuncia, aiutata dalle campagne che sono importanti. Ma c’è più disponibilità all’ascolto degli adulti di riferimento: famiglie, insegnanti e autorità pubbliche. Una volta una ragazza che si lamentava con un genitore di certi comportamenti veniva come sminuita, perché erano ritenuti normali nella concezione sociale. Oggi, e questo è il terzo punto, c’è più sensibilità sociale alla qualificazione criminale di certi comportamenti sessuali. E altri, oggi qualificati come bullismo, prima erano ritenuti goliardici, riti di inclusione e iniziazione in un gruppo. Pensi al nonnismo, non solo nelle nostre caserme ma anche nelle comunità accademiche angloamericane: un rito di passaggio, chiaramente in violazione della libertà personale».

Ma la nostra società è davvero al passo con questi cambiamenti?«I dati in crescita devono essere confrontati con passaggi qualificati: la modifica della fattispecie di reato di violenza sessuale come lo conosciamo oggi è stata introdotta nel 1997 in sostituzione dei reati di violenza carnale e di atti di libidine violenta. Queste due tipologie sono diventate violenza sessuale, con l’ aumento della pena, solo nel 2019, cioè molto di recente».

Sta dicendo che è cambiata la valutazione sociale, ma anche giuridica?La valutazione sociale di certi comportamenti è cambiata in maniera tale da determinare una reazione anche giuridica. Pensiamo a tutti i casi una volta considerati di maleducazione sull’autobus e oggi classificati come violenza. E qui c’è il secondo fattore: l’evoluzione della giurisprudenza sul consenso del soggetto passivo in caso di comportamenti sessualmente rilevanti. Quando c’è il consenso? È uno degli elementi più rilevanti nei casi di violenza. La formula tradizionale è “ma lei ci stava” ed è sostenuta dalla difesa anche nei casi più aberranti, sempre di difficile dimostrazione. Ma sul profilo giuridico è un indicatore della maggiore sensibilità».

E questa maggiore sensibilità c’è anche per reati non di tipo sessuale?«Sì, ad esempio nei casi di abuso della pena di correzione, con la modifica dello “ius corrigendi”. Io ho 72 anni, quando ero alle elementari l’uso della bacchetta da parte del maestro era assolutamente tollerato. E cambia anche la norma che punisce i casi in cui si procuri la morte o la malattia fisica o della mente. Mia madre mi dava gli schiaffi, mio padre l’ha fatto una sola volta in un periodo difficile della sua vita, ma il mio vicino di casa, funzionario delle ferrovie, usava stabilmente la cinghia come strumento di correzione. E ovviamente né i figli, né i vicini si sono mai sognati di fare una denuncia. Oggi sarebbe diverso. Perciò i dati devono essere dinamicamente analizzati, con l’avvertenza che la crescita in aree marginali può essere l’effetto di più consapevolezza e non di una maggiore incidenza in assoluto».

Dunque i dati dei reati sui minori vanno letti con una lente diversa.«Se un abuso avviene in una casa della media borghesia, l’incidenza statistica rileva in maniera più significativa rispetto a un’area socialmente marginale. Un problema di strumento della ricerca sociale: se non distingui a monte queste situazioni, poi fai di tutta l’erba un fascio. Queste sono le mie riflessioni non sui dati presentati da un’associazione meritoria, ma sulla loro costruzione. Andrebbero “splittati”: analizzati e distinti con parametri come le fasce sociali e l’incidenza nel tempo. Quando mi interessavo di servizi sociali, venni a conoscenza che in alcuni paesi era molto diffuso il reato di incesto, soprattutto in comunità chiuse in cui non c’era comunicazione sociale. Perciò va approfondita la costruzione del dato».

Ma ora lei è il Garante dell’infanzia. Quali sono le criticità in Sicilia?«Quello del Garante è un ufficio impotente. Pochi strumenti a disposizione e soprattutto una debolezza istituzionale. Non è molto considerato dai servizi sociali. Diversamente, con i quattro Tribunali dei minori della Sicilia c’è un’interlocuzione molto attiva e positiva».

E lei si è arreso a questa impotenza?«No, io sto cercando di lavorare attuando una strategia della consapevolezza per la quale vanno bene le campagne formative e informative. Un giornale che presenta adeguatamente il problema può fare più di tanti altri mezzi, ma non basta. E non si può delegare ai social, che non fanno comunicazione positiva, ma propongono i modelli dei neomelodici. Allora penso che servano strumenti diretti e proattivi di prevenzione, fondamentalmente di tipo pedagogico».

Si spieghi meglio.«Due esempi: il decreto Caivano e la legge sul bullismo, due prototipi normativi con una serie di sanzioni penali alle quali è stata data grande rilevanza e grande enfasi, ma anche alcuni strumenti proattivi a carico di scuola, comunità civile e famiglie per prevenire certi comportamenti. E, basandoci su questo approccio, in Sicilia stiamo lavorando a un’iniziativa importante».

Di cosa si tratta?«La proposta di uno schema tipo di patto di corresponsabilità educativa, a cui lavoriamo da luglio. Uno strumento obbligatorio per legge, che i genitori firmano con le scuole spesso senza nemmeno saperlo. Nel gruppo di lavoro ci sono, fra gli altri, Marcello La Bella, don Fortunato Di Noto, altri esperti di scuola e sanità e rappresentanti dei genitori. Non abbiamo il potere di imporre lo strumento, che ogni scuola scrive in autonomia in base a linee-guida che il ministero ha preparato ma mai pubblicato. Quando il tavolo interistituzionale lo approverà, sarà diffuso a tutte le scuole mediante un percorso formativo per i dirigenti. Ma senza un’alleanza con gli strumenti di comunicazione e soprattutto un’estensione del patto scuola-alunni-famiglie a una rete sociale rilevante sul territorio, il rischio è quello di fare l’ennesimo buco nell’acqua».

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