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Il risvolto

Agricoltura, l’altra faccia del “sistema”: il business dei caporali sui migranti

Caltanissetta: in 16 a processo, tre pakistani raccontano i soprusi. Ora c’è il sistema del doppio bancomat

Di Laura Mendola |

Mentre i potenti della terra si sono incontrati a Siracusa per parlare di agricoltura e pesca, c’è un’altra faccia della medaglia che riguarda il mondo agricolo. Una piaga che è difficile da debellare: il caporalato. Stranieri che raggiungono l’Europa con il sogno di una vita migliore che rimangono vittime di un sistema criminale composto da imprenditori che impongono le loro regole, caporali che speculano sulla pelle dei connazionali. Ma non sono solo i migranti ad essere vittima del sistema, ci sono anche italiani che colpiti dalla crisi economica sono disposti a sudare sotto il sole cocente delle campagne pur di portare a casa qualcosa da mangiare.

Un sistema radicato, ma le vittime non sempre si ribellano perché hanno la necessità di avere un sussidio economico. Qualcosa però inizia a cambiare. C’è chi parla e lo fa con consapevolezza. Lo ha fatto un gruppo di migranti a Caltanissetta, qui nel luglio di quattro anni fa è stato ucciso Adnan Siddique, 32 anni del Pakistan, ammazzato dai suoi connazionali dopo aver denunciato lo sfruttamento nelle campagne nissene. Era un giovane pieno di ideali e nel momento in cui la paga, anche di 30 euro per otto ore di lavoro sotto il sole, non venne più elargita si è messo a capo della rivolta nei campi. Dopo il suo delitto è stato ribattezzato il “sindacalista dei pakistani”. Da quel delitto tre connazionali hanno voluto raccontare quanto si registra nei campi nelle province di Caltanissetta e di Agrigento. Dal centro per i migranti partivano insieme verso la stazione ferroviaria, qui stazionavano fino a quando dei camion – trasformati in pullman – li prendevano per portarli a lavorare in campagna. Nessuna sosta per il pranzo, poca acqua, niente guanti e scarpe antifortunistica. Poi la triste realtà: 30 al massimo 40 euro per una giornata di lavoro. Poca cosa rispetto al contratto di lavoro che molte vittime non hanno mai firmato.

Per la prima volta a Caltanissetta imprenditori e caporali stanno seduti sullo stesso banco, gli uni accanto agli altri. Sono sedici persone, quattordici delle quali italiane oltre ad un romeno e un pakistano, che quattro anni fa hanno fatto “cartello”. Da una parte gli imprenditori che chiedevano manovalanza e nel libro mastro annotavano le somme che venivano elargite, dall’altra i caporali che reperivano il personale da portare nei campi e sul denaro facevano la cresta. Le sedici persone ora sono sotto processo e sarà il dibattimento a chiarire eventuali responsabilità. Un dato però è certo: tre pakistani assistiti dall’avvocato Alberto Magro Malosso si sono costituiti parte civile contro i loro sfruttatori. E parte civile con l’avvocato Salvatore Patrì c’è anche il Movi che ha denunciato diversi casi di caporalato nelle campagne nissene e agrigentine dopo l’omicidio di Siddique.

Dopo le inchieste nel nisseno qualche imprenditore si è adeguato stipulando i contratti di lavoro ai braccianti agricoli. Ma anche in questo caso fatta la legge, trovato l’inganno. Molti braccianti adesso hanno un codice Iban in cui versare lo stipendio. Ma una parte viene prelevata direttamente dal caporale o dall’impresario. E lo fanno attraverso lo stratagemma del doppio bancomat o facendosi consegnare la prepagata e il codice Pin per i prelievi. Un sistema fraudolento nel segno della legalità in una terra ricca di sole e di prodotti agricoli, lavorati dalle mani di giovani che sono giunti in Europa sognando una vita migliore e si ritrovano a vivere il dramma della disperazione: pochi soldi in tasca, tanti sacrifici per evitare le spese superflue nel tentativo di mandare qualche spicciolo a casa. Ai familiari raccontano di una terra bella, nascondendo loro la sofferenza vissuta in un’isola in cui ancora oggi c’è chi detta le regole non scritte del malaffare.

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