L'INTERVENTO
La politica penale dei cerchi magici
Nessun sistema giudiziario può vivere nell'incertezza alla stregua del continuo mutare delle norme
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. «Se l’incertezza delle leggi cade sopra una nazione indolente per il clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità: se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi che spargono la diffidenza del cuore, e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza». Parole di Cesare Beccaria nel 1764.
Invero, il passo continua con l’indicazione di una società «coraggiosa e forte», ma mi pare che allora come oggi quel riferimento non possa valere per l’Italia. Insomma, da sempre è riconosciuto quale principio basilare del diritto penale che le leggi debbano essere chiare e stabili. La chiarezza, infatti, esige certezza e quest’ultima relativa permanenza delle norme nel tempo sì da renderle definite e conosciute per tutti. Invece, in Italia?
Nel nostro Paese quell’insegnamento è sconosciuto. Sembra che la legge del pendolo quasi obblighi ad oscillazioni da un estremo ad un altro. E ciò riguarda anche le culture sottostanti alle leggi. Nel 1992, ai tempi di Mani Pulite, si era tutti giustizialisti a carico di politici e amministratori pubblici e – non lo si dimentichi – anche i partiti oggi sulla scena politica e i loro leader cavalcavano allora l’onda colpevolista per il quale un avviso di garanzia equivaleva a condanna.
Sarebbe utile che giornali e tv facessero ogni tanto ricostruzioni storiche sulle dichiarazioni dei nostri esponenti nel passato anche prossimo, non per invocare un’impossibile coerenza, quanto per mostrare – purtroppo – il carattere sprovveduto di posizioni manifestate solo per andare incontro a ventate populiste.
Poi si diventò garantisti, anche fidando sui tempi lunghissimi dei processi e le inevitabili prescrizioni. La cosa singolare, semmai, è che protagonisti di queste vicende sono proprio i politici sia come opinion leader sia come interessati alle vicende giudiziarie: un evidente conflitto di interessi.
L’affermazione dei pentastellati nel 2018 addirittura ha promosso una campagna contro la casta politica ed i suoi privilegi: tipico di un movimento che premeva per imporsi sull’arena politica. Quell’intento è subito scomparso, ma ha lasciato la sua eredità sul diritto penale. Si pensi alla legge intitolata “spazzacorrotti” del 2019, che ha inasprito pene e sanzioni a carico di amministratori pubblici, rafforzato la disciplina sul finanziamento ai partiti ed ha eliminato la decorrenza della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Già la prescrizione dei reati: un vero e proprio tormento per la nostra classe politica, atteso che nel nuovo secolo l’ha modificata quattro volte: nel 2005 (legge ex Cirielli), nel 2017 (riforma Orlando), nel 2019 appunto con la legge Bonafede, ed ancora con la legge Cartabia del 2021 che ha introdotto l’istituto dell’improcedibilità, fratello gemello della prescrizione.
Ora, nessun sistema giudiziario può vivere nell’incertezza alla stregua del continuo mutare delle norme. O anche solo – aggiungerei – dell’incitazione a farlo, perché questo getta il discredito sulle leggi vigenti e di fatto induce a violarle. Ma l’effetto annuncio a volte paga politicamente ed allora nessuno vi rinuncia.Il 10 luglio è stato abrogato il reato d’abuso d’ufficio, altro oggetto di modificazioni ripetute nel corso degli anni, e di colpo accusato addirittura di rendere inefficiente l’attività amministrativa di sindaci e di funzionari pubblici.
Permettetemi di dire che non capisco il problema dei sindaci. L’abuso d’ufficio sanziona(va) chi violava la legge per avvantaggiare o danneggiare qualcuno oppure chi adotta(va) atti malgrado l’esistenza di un conflitto di interessi. Ora, dal 1990, ai sindaci è stata sottratta l’attività di gestione (per farla breve: un permesso di costruire o un contributo è rilasciato dal funzionario e non più dal sindaco) e gli è stata assegnata solo la funzione di indirizzo, che per il suo contenuto generale non dovrebbe danneggiare o avvantaggiare qualcuno. Allora, il rilievo significa solo una cosa e cioè che in molte amministrazioni la distinzione tra indirizzo e gestione non funziona e che per ottenere un permesso, una licenza o un contributo bisogna chiedere al politico che li… concede.
Si dice anche che ci sono poche condanne per abuso e molte assoluzioni. Bene: vuol dire che funziona l’intento preventivo della norma e che i dipendenti pubblici la rispettano, il che è per definizione quanto si vuole da ogni disposizione di carattere penale.
Il fatto è che la norma mi pare assolutamente necessaria a colpire quei comportamenti di inefficienza amministrativa che hanno a cascata effetti deleteri sul mondo delle professioni e dell’economia.Faccio un esempio: oggi l’amministrazione è veramente e per molti versi il motore dell’economia; dagli appalti pubblici di opere e servizi dipende la stessa esistenza di molte imprese; l’amministrazione dovrebbe pagare gli imprenditori man mano che eseguono i lavori e presentano le fatture; ma qui il sistema spesso si blocca perché – guarda caso – sono pagati professionisti e imprenditori amici e gli altri sono ignorati del tutto, magari ad attendere il dissesto del Comune.
Ecco: l’abuso d’ufficio svolge qui la sua funzione di colpire il cattivo funzionario che non rispetta l’ordine di pagamento delle fatture oppure lo elude, e quindi avvantaggia qualcuno e danneggia altri. Per le mie conoscenze di diritto penale non esistono altre norme che colpirebbero una vicenda di tal fatta, semmai chiedo agli specialisti di indicarmele. L’abuso di ufficio non è rimedio miracoloso, ma almeno è un deterrente contro l’amministrazione dei “cerchi magici”, di chi distingue gli imprenditori tra amici e nemici, aiuta gli uni ed ostacola gli altri.
Secondo esempio. Dal 1997 il reato di abuso è commesso dal dipendente pubblico che non si astiene in un procedimento che riguardi un interesse proprio o di un prossimo congiunto. E tante altre disposizioni danno applicazione a tale principio che dovrebbe essere ovvio. Così, un dirigente pubblico deve “astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. Sindaci, assessori e consiglieri comunali “devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado”.
Ed “i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato”: insomma, non possiamo avere il sindaco-ingegnere. Ma anche “il giudice ha l’obbligo di astenersi” tutte le volte in cui lui, il coniuge o un parente hanno “interesse nella causa”.
Tutte queste regole del vivere civile di colpo rimangono orfane e senza sanzione: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio le trascina con sé. E non si venga ipocritamente a dire che si può ricorrere ad altri strumenti per assicurarne il rispetto. Si sia almeno leali.
Stupisce, insomma, che l’amministrazione sia abbandonata a se stessa. Da domani il professore universitario può conferire l’incarico di assistente al figlio, il consigliere comunale far diventare edificabile il proprio terreno nel piano regolatore, il giudice può nominare il cognato amministratore dell’azienda sequestrata. E perché no? Cosa lo impedisce?
Post scriptum. A coloro i quali aspettano che il Comune li paghi si apre un’altra possibilità: facciano come Forti e sparino ai dipendenti inerti. Mal che gli vada, troveranno stampa e politici a trattarli da eroi. Ha ragione Vannacci: è veramente un mondo al contrario!COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA