Siracusa
“Fedra” con la regia di Curran, una commistione di stili e stilemi tra telefonino e (opinabile) pistola
A spuntarla è la scrittura contemporanea di Euripide e gli interpreti credibili e ammalianti
«This is the dawning of the age of Aquarius! Age of Aquarius! Aquarius! Aquarius!».Certo è che non le hanno mai pronunciate queste parole quei tranquilli invasati del Coro di “Fedra” di Euripide, secondo spettacolo classico dell’Inda in scena al Teatro antico di Siracusa, traduzione di Nicola Crocetti, regia di Paul Curran.Certo è che il testo è altro e oltre il “tribal love rock musical” di Rado e Ragni. Pure, in mimesis e sostanza, parrebbero dire le stesse cose quei forsennati in forte, fortissimo odore di Flower&Power.E lo fanno un sospiro dopo che Afrodite (gonna in tulle con coulisse, elmo ed armatura dorata nei costumi di Gary McCann anche scenografo), in discesa dalla cavea, guadagni la scena vestita solo di tubi Innocenti e ballatoi come da teatro smantellato e, al centro, da una struttura finora celata che non ci metterà molto a disvelarsi volto gigantesco di Fedra che diverrà sismografo di mozioni, emozioni, delitti, lutti, ritorni, spartenze. Dapprima “rigato” da pericolose fenditure che ne minacciano la rovina, quel volto sarà vistosamente porpora come da grumi di sangue, scosso da fiamme in proiezione fino a svuotarsi completamente i bulbi oculari (video design di Leandro Summo).
Il volto di Fedra è dissesto, è testa senza “finimento”, è frattura insanabile.E tuttavia sembrava, almeno di primo acchito, quasi un peana hippy il dramma fin troppo “scandaloso”, a suo tempo male accolto ché offendeva la morale comune – la moglie di Teseo è trafitta da peccaminose pulsioni erotiche verso il figliastro Ippolito che la rifiuta recisamente e rabbiosamente perciò lei si sottrae alla passione togliendosi la vita ma fa valere la sua vendetta al di là della morte giacché fa penzolare al polso uno scritto in cui dichiara il falso ossia che è stato Ippolito a disonorare il letto nuziale.
E invece la versione di Curran – che solo poco dopo l’apertura, per il coro iniziale, utilizza musiche in qualche modo prossime a “Hair” firmate da Matthew Barnes mentre il resto della partitura, carica di suggestioni melodiche contemporanee non senza percussioni incalzanti o echi da Carmina Burana, è affidata ad Ernani Maletta – è vistosamente una commistione di stili e stilemi, suggestioni e suggerimenti. Del resto, il crinale che separa la legittima voglia di (ri)fare dall’altrettanto legittimo non sapere esattamente cosa farne della Tragedia, qui ed ora, è sottilissimo. Praticamente invisibile.Perciò libera cittadinanza al telefonino cellulare con cui un membro del Coro apostrofa il servo – che indossa una sorta di veste da postulante – chiamandolo “vecchio” benché questi, a un certo punto, prenda a dimenarsi in una specie di “shake”. E sia anche l’opinabilissima pistola che Teseo punta ex abrupto sulla fronte del Messaggero. Per non dire, poi, dell’ombra di una improvvisa, imprevista, improbabile Protezione civile che fa capolino nel plotone di coreuti in tute gialle e arancioni.
Un affastellamento di stili, epoche, umori
Il mélange che è affastellamento di stili, epoche, umori è poi evidente nei costumi in cui l’abito fa e non fa il monaco: il lungo, sofisticatissimo vestito della Nutrice a metà tra da gran sera e “sottana” di fine Ottocento, la veste giallo acceso di Fedra quasi un abito estivo degli ultimi vent’anni. E se Teseo si presenta austeramente abbigliato da re o fors’anche da bonzo, suo figlio Ippolito, in calzoni bianchi e giacca brillante argentata aperta sul petto nudo, rammenta non poco Elvis e chissà anche Jacko.A spuntarla è sicuramente la scrittura dannatamente contemporanea del terzo, immenso Tragico più vicino a noi che qui si snoda in una lingua tutto sommato inchiodante e fruibile in languori ed irrevocabilità, moderna e al tempo stesso “antica” nella sua aderenza all’originale.E se la vicenda, tremendissima ma anche chiara, diretta e senz’appello, diventa fonte d’empatia inesauribile e inevitabile, è perché gli interpreti sono credibili, ammalianti “ambasciattori” della “legacy” euripidea.In testa, Alessandro Albertin che già trovammo imperioso ed imperiale Prometeo: oggi, è Teseo straziato e straziante, sovrano della parola urlata e dialogata che mai indulge in retorica e stereotipi di rito. E’ Nutrice incalzante, imponente, saggia e saggiamente disperata Gaia Aprea, solida nella gestica e nella veemenza vocale. Non è coscienza di un eros debordante e “colpevole” piuttosto un impietoso autodafè ad animare Alessandra Salamida, Fedra vulnerabile al limite di un inarrestabile autolesionismo. E’ attor giovane irruento, intransigente, fisicamente prestante eppure fortemente dolente, al finale, Riccardo Livermore nei panni di Ippolito, decisamente notevole è il Messaggero di Marcello Gravina, il suo racconto è terrore puro, gotico anzitempo. Completano bene il cast Giovanna Di Rauso (Artemide), Ilaria Genatiempo (Afrodite), Sergio Mancinelli (un servo).Last but not least, le corifee sono fuoriclasse senza discussione – Simonetta Cartia, Elena Polic Greco, Giada Lorusso, Maria Grazia Solano – che, come l’orchestra per un teatro d’opera, dell’arte sul Temenite sono prezioso, pregiato, urgente tessuto connettivo.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA