Siracusa
Aiace “dramma borghese” con la musica protagonista
Inaugurata la stagione della tragedie con la magnifica presenza scenica di Micheletti
È Don Chisciotte ma è anche Agave, tragica, sanguinolenta baccante.Vede uomini invece di greggi, Aiace, come il cavaliere dalla triste figura fa di giganti mulini a vento ma, se c’è pianto e stridore di denti intorno alla sventurata figlia di Cadmo che esibisce in trofeo la testa del figlio credendolo una giovenca, intorno ad Aiace si ride e si deride.E per l’eroe mai fallito né per errore né per ingenuità, l’eroe senza macchia che pretende, a buon diritto, le armi di Achille, ce ne sono eccome di macchie di sangue che imbrattano, impregnano, quasi una sorta di liquido amniotico nella scena di Nicolas Bovey per “Aiace” di Sofocle che ha inaugurato la stagione dell’Inda al Teatro antico di Siracusa.
Il sangue gonfia le vele e proscenio rivela una bestia sventrata
Title-role e regista è Luca Micheletti, l’italiano è quello sbrigliato e intenso di Walter Lapini.Il sangue gonfia le “vele” che accompagnano, minacciose, il perimetro della tenda, tana del mistero su chi ha massacrato chi. Da qui, l’inchiesta del dramma ed il dramma dell’inchiesta. E, come se non bastasse ad inondare di luce beffarda l’eroe esaltato, abbattuto, esaltato e annientato, il proscenio rivela, senza infingimenti, già in apertura, una bestia sventrata. Più avanti, ad un passo dalla fine, in tutti i sensi, si scopriranno i resti, inquietanti e ingombranti – in verità opinabili ché decisamente nulla di così evidente vi è nella loro lettura – e improbabili per un umano comune, appartenuti forse ad una sorta di cugino di Prometeo. Ossa enormi come ponti di navi in rovina. Di bestie mansuete e inquiete ve ne saranno altre, in scena, credibili nelle soluzioni di Daniele Gelsi con Elisa Balbo ai costumi che, come sempre più spesso accade nel “nuovo” Mito, hanno connotazioni non schiave del “cronos”. Ora è un tripudio di pelle, ora è la convenzionale veste-gabbia dell’eroe, ora è il magnifico, ieratico minimalismo della veste di Tecmena, felicemente e tragicamente rivestito, a sua volta, da una chioma infinita.
Una sorta di coro shakespeariano
C’è aria di arie, in questo “Aiace” e non solo perché il talento proteiforme di Micheletti, attore, regista ed accreditatissimo baritono di teatro d’opera, impone, seppure con devozione al rito, una cifra legata, a suo modo, al melodramma. La ragione è che sul theologhéion, quell’ensemble musicale, discretissimo e strepitoso (violoncelli, percussioni, arpa, trombone, clarinetto, suonato, quest’ultimo, da un “musicattore” dentro all’inferno di sangue) è segno e sogno di un ruolo integrato ed integrante. Non è un mistero, del resto, che il talento creativo di Giovanni Sollima uno e due – interprete mirabolante e fecondo compositore, hic et nunc autore delle musiche – parli anche la lingua del “téatron” che si predica di appropriati interventi coreografici, classico e tribale insieme, di Fabrizio Angelini. La partitura, infatti, è l’altra “parola” di “Aiace”: loop e “canto parlato”, musicalissimi sussurri e grida di strumenti in dialogo, voce narrante riconosciuta al violoncello, comprensibilmente strumento “eletto”. Monodia e polifonia rappresentando, quest’ultima, l’unico tonante, suadente momento di ubriacante coralità. Di Coro in coro non se parla da un bel po’ nelle moderne tragedie in teatri di pietra: frammentare il testo del Coro facendo, così, di ogni elemento un corifeo solista, una sorta di coro shakespeariano, se si vuole, diventa scelta affrontabile per il metteur-en-scène che scende a compromessi con la classicità trasformando la tragedia in dramma borghese.
Micheletti è di magnifica presenza scenica
Quale protagonista, Micheletti è di magnifica, eloquentissima presenza scenica: atterrato o infuocato, braccia spalancate, volto al cielo, sguardo cieco agli dei, Micheletti è erede (in)volontario di un teatro totale. La voce sommessa e spiegata, spesso inattesa in colori e calori, fa pensare a certo teatro moderno di 50 anni fa in cui la voce dell’attore era capace, da sola, a “diventare” la pièce. Si concede, poi, un momento di commossa, commovente reviviscenza stanislavskiana quando coccola e scuote la vera, piccolissima figlia Arianna nei panni del figlio Eurisace.
Intorno a lui, nutriti dalla folta milizia di Marinai, Erinni, Soldati, Dei (curati da Davide Cavalli e Marcello Mancini) ben figurano Roberto Latini (irridente Atena al maschile, petulante, sciroccato Messaggero), Daniele Salvo (tetragono Odisseo, insolitamente umano), Tommaso Cardarelli (Teucro), Lidia Carew (Ate/Thanatos) mentre Michele Nani (Menelao) ed Edoardo Siravo (Agamennone), restituiscono alla lettera la “meschina irriconoscenza” degli Atridi.Il lutto si addice a Tecmessa. Non schiava, come impone il tragico epilogo, ma padrona assoluta di tragico e tragicità, Diana Manea è chimica ideale e reale di sacro e terragno, mimesi fisica, prepotente, catturante prova d’attrice.La cavea (quasi 5000) è invasa a ripetizione dalla Compagnia, entrate ed uscite a ripetizione, tante e tanto simili da annullarne sorpresa ed incantamento ma sembra gradire non poco con chiamate e feste, alla fine.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA