Notizie Locali


SEZIONI
Catania 22°

i misteri di sicilia

Il depistaggio su via D’Amelio e il ruolo di La Barbera: a Caltanissetta si prova a mettere insieme il puzzle

Il processo sulle false accuse del pentito Scarantino

Di Redazione |

«In Cosa nostra tutti parlavano del mandante esterno ma nessuno sapeva chi fosse. Sappiamo anche che Riina fece un patto con questa entità esterna. Che le due stragi del ’92 siano stragi di mafia è indiscutibile. E’ chiaro. Ma chi è questa mafia che agisce? Fu una nuova mafia diversamente composta con due componenti: una istituzionale e una mafiosa stragista. Quindi agiscono insieme. Dall’ideazione fino all’esecuzione. Il dottore Arnaldo La Barbera fece il lavoro che ha fatto per depistare le indagini e lo fa perché consapevole della presenza di una nuova forma associativa».

Lo ha detto l’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di parte civile di Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina e Gaetano Murana, accusate ingiustamente dal falso collaboratore Vincenzo Scarantino (e assolti nel processo di revisione per la strage di via D’Amelio) al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage del 19 luglio 1992 a Palermo, in cui furono uccisi Paolo Borsellino e 5 agenti della polizia di Stato, che si celebra a Caltanissetta dinanzi alla Corte d’Appello presieduta da Giovanbattista Tona. Arnaldo La Barbera era a capo del gruppo di indagine Falcone-Borsellino della Squadra Mobile di Palermo di cui facevano parte i tre esponenti della Polizia di Stato imputati nel processo.

«Se fosse un libro questo altro capitolo si intitolerebbe “Il depistaggio … continua”. Tutti hanno negato l’esistenza del telefono a casa del falso collaboratore Vincenzo Scarantino a San Bartolomeo al Mare, sebbene lo avessero fatto mettere e iniziato a intercettarlo all’indomani della installazione. Negano i pm e pure i poliziotti» ha aggiunto l’avv. Di Gregorio. Alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. In primo grado era caduta l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo. Prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo era stato assolto «perché il fatto non costituisce reato».

«Su questa vicenda la domanda è: Perché si nega l’esistenza del telefono? Perché c’erano le telefonate ai magistrati e ai poliziotti? Perché c’erano le cosiddette anomalie? Che poi altro non è che l’interruzione delle registrazioni? O per lasciare vivere ancora il falso presupposto dell spinta dei parenti nel tentativo di fare ritrattare Scarantino? Oppure tutto questo insieme?».

E poi l’avvocata aggiunge: «Al di là delle botte, delle manette, quello che mi ha fatto più impressione, significativo della consapevolezza di Mario Bo è la minaccia che rivolge, e lo conferma la teste Rosalia Basile, ex moglie di Scarantino, di mandarlo in un carcere peggiore di Pianosa. Messaggio pervenuto, perché Scarantino poi ritratterà la ritrattazione…».

«Ancora oggi a distanza di ben 32 anni non sappiamo, al netto dell’agenda rossa, quali fascicoli, quali carte avesse nella borsa il dottore Paolo Borsellino» ha invece detto l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, nel corso della sua discussione nel processo d’appello sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.«E cosa è avvenuto nell’ufficio del dottore Borsellino? Non sappiamo quali fascicoli ci fossero sulla sua scrivania. Non sappiamo – ha continuato Trizzino – per esempio se ci fossero dei fascicoli sugli appalti perché non abbiamo mai visto un verbale di sequestro dei documenti. Eppure Borsellino era uno che lavorava tanto. E ancora il dottore Borsellino viene ucciso alle 16.58. Sappiamo che i sigilli sono stati apposti alle 23.28 del 19 luglio 1992».

Poi Trizzino riferendosi al falso pentito Vincenzo Scarantino, che secondo l’accusa sarebbe stato imbeccato dai tre poliziotti imputati per costruire una falsa verità sulle stragi, ha aggiunto: «Si è deciso di scarantinizzare le indagini. Perché quel depistaggio non si può spiegare solo con qualcosa che riguarda Cosa Nostra. Come puoi pensare che lo Stato non reagisse? Ci si concentrava su Vincenzo Scarantino sui suoi sbalzi d’umore e non su elementi fondamentali delle indagini».

«Arnaldo La Barbera volle Mario Bo al suo fianco. Lo richiamò dall’anonimo commissariato di provincia di Volterra. Il dottore Bo non poteva che essere grato a La Barbera, per questo suo trasferimento a Palermo con un incarico prestigioso, e gli offrì fedeltà incondizionata. Ai giudici di primo grado forse è sfuggita questa natura dinamica del depistaggio. Ciascuno entra in un determinato momento e da quel momento dà il suo contributo», aggiunge l’avvocato Fabio Trizzino nella sua discussione all’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra in corte d’appello a Caltanissetta.«Il dottore Bo – ha continuato Trizzino – decise consapevolmente di fornire il proprio contributo ad Arnaldo La Barbera. La cosa che più di altre lo dimostra è l’intercettazione di San Bartolomeo a Mare, quando Vincenzo Scarantino parla con Bo e, riferendosi a La Barbera, si capiscono al volo. E questo è l’elemento che unisce nel disegno criminale il dottore Bo al dottore La Barbera. Hanno avuto il coraggio di prendere in giro il popolo italiano. D’altra parte il dottore La Barbera aveva bisogno di fedeli esecutori che non dicessero una parola. Quella che emerge è la figura di una persona forte con i deboli e debole con i forti».E ancora rivolgendosi all’altro imputato Fabrizio Mattei, oggi presente in aula, Trizzino ha aggiunto: «Lei ha detto che ha partecipato alle indagini sulla strage di Capaci e allora a maggior ragione doveva capire che Vincenzo Scarantino era solo uno ‘scassapagliarò».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

Di più su questi argomenti: