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il dibattito
FdI, la “conta” alle Europee e la testa alle Regionali del 2027: ecco la mappa del potere meloniano
Musumeci schiera Razza (appoggiato da Messina e Galvagno), mentre Pogliese lancia il sindaco di Gravina, Giammusso
L’epicentro del potere, nel partito più potente, è sotto il Vulcano. E così i Fratelli di Catania, dopo aver ricevuto la visita di Giorgia Meloni per Sant’Agata, mostrano i muscoli: quasi mille presenze in due giorni, con una sfilata di ministri, sottosegretari, parlamentari nazionali, deputati e assessori regionali, alti burocrati e manager sanitari in prima fila, imprenditori ammiccanti. Dibattiti e seminari, assemblee degli amministratori locali, buffet (con prenotazione preventiva) e cene di partito, un confronto molto serrato fra l’intera classe dirigente meloniana di Sicilia. Nostalgici musumeciani e lealisti schifaniani, allineati e irrequieti, falsi diplomatici e veri ambiziosi. Ma il seminario “Patrioti in Comune” diventa anche una tappa di avvicinamento alle Europee. Mentre sul palco si affrontano i temi più disparati (Pnrr e fondi extraregionali, finanza degli enti locali, sicurezza e sviluppo), nei salottini dell’hotel nei pressi di Fontanarossa si discute di chi spiccherà il volo per Bruxelles.
Le chiacchiere da caffè
Le chiacchiere da caffè danno per quasi scontata la discesa in campo, come capolista in tutte le circoscrizioni, di Meloni: l’ultimo sondaggio che gira in Via della Scrofa dà una forbice del 3/5% in più a FdI con la leader candidata. Smentite anche qui a Catania le voci che vorrebbero in lizza (magari proprio nelle Isole) Arianna Meloni, ma «finché Giorgia non scioglie la riserva tutto è possibile». E allora i calcoli dei capicorrente siciliani si basano su questo schema: con dentro Meloni più due sardi (un uomo e una donna, comunque più temibili del solito se oggi Paolo Truzzu stravincesse le Regionali), i posti in palio sono cinque. Sulle due donne c’è quasi la quadra: la deputata regionale Giusi Savarino e l’assessora Elvira Amata (nonostante il collega dell’Ars, Pino Galluzzo, insista per l’avvocato barcellonese Giuseppe Lo Presti), con la sindaca di Avola, Rossana Cannata, ancora in ballo, nonostante la diffusa convinzione che «Messina non può restare scoperta». Il problema sono gli uomini. Scontata la ricandidatura del palermitano ex forzista Peppe Milazzo (che avrà l’appoggio di quasi tutti i big occidentali, da Alessandro Aricò a Carolina Varchi e Giampiero Cannella) e archiviato con gelida nonchalance il passo indietro dell’altro uscente, il “mobbizzato” Raffaele Stancanelli, il file aperto è proprio all’ombra dell’Etna. Dove oggi si concentrano le influenze e gli interessi di due ministri (Nello Musumeci e Adolfo Urso), del presidente del Senato (Ignazio La Russa) che ha come suo pupillo il presidente dell’Ars (Gaetano Galvagno) e di una decina fra parlamentari nazionali e regionali, con tanti sindaci a partire da Enrico Trantino nel capoluogo.
Gli equilibri catanesi
Ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. E invece, per ora, c’è soltanto l’imbarazzo. Per la difficoltà di far quadrare gli equilibri fra i catanesi. Che saranno più potenti dei palermitani, ma di certo meno compatti. Non sarebbe stato così se il pressing romano per un «candidato forte di tutti» avesse avuto successo: corteggiati prima Musumeci e poi Salvo Pogliese, mattatore della due giorni conclusa ieri sera. E allora ognuno metterà in campo un proprio uomo: l’ex presidente della Regione punta su Ruggero Razza, il senatore lancia Massimiliano Giammusso, sindaco di Gravina. Il derby etneo, ovviamente, costringerà tutti gli altri a scegliere. E così, ad esempio, Manlio Messina sarebbe orientato su Razza (pur in buoni rapporti con Giammusso, contrariamente all’odio, reciproco, con Basilio Catanoso, primo nome, poi sfumato, di Pogliese che ha pensato pure a Dario Daidone, poi confermato all’Ars dai giudici), anche se in cuor suo avrebbe preferito la candidatura dello stesso ex sindaco di Catania, che in caso di elezione avrebbe lasciato lo scranno di Palazzo Madama a Francesco Scarpinato, liberando a sua volta un posto nella giunta regionale per la “corrente turistica”. Ma Pogliese avrebbe opposto un garbato (e motivato) rifiuto fino a qualche giorno fa ai vertici nazionali del partito. E vuole scommettersi su Giammusso, cresciuto nel suo gruppo giovanile, anche a costo di affrontare quasi tutti gli altri leader etnei. Soprattutto chi, a differenza del vicecapogruppo vicario alla Camera e dei Nello-boys, un pacchetto consistente di voti ce l’ha in tasca: Galvagno. Il presidente dell’Ars, come del resto lo stesso Musumeci (autore di una garbata moral suasion a Roma affinché Razza resti l’unico catanese in lista), preferirebbe non doversi misurare contro Pogliese, che alle urne, anche nelle fasi più difficili della sua carriera, ha sempre dato grandi prove. Ma quello del prossimo giugno sarà, a meno di improbabili colpi di scena, l’ultimo test prima dell’orizzonte delle Regionali 2027. E dunque FdI, che ha rinunciato al bis di Musumeci e vuole il prossimo candidato governatore, dovrà contarsi. A partire da chi potrebbe aspirare a Palazzo d’Orléans (il nome più naturale sembra quello di Galvagno, anche se nel partito siciliano si dice che la futura carta meloniana sarà invece proprio Messina) e dunque deve dimostrare la leadership alle urne, prima ancora che nel rating del potere romano.
Europpe, la “terna” e la conta
Quindi i Fratelli di Sicilia si troveranno presto in una contesa in cui, pur votando compatti per la capolista Meloni e avendo la possibilità di una “terna”, ci si dovrà schierare. E uscire dalla logica da caserma che ammanta il finto unanimismo. Prendano esempio dal capogruppo all’Ars, Giorgio Assenza, per il quale il cofinanziamento regionale di 1,3 miliardi al Ponte «non è stato il massimo della genialità», a Catania critico sulla gestione dei temovalorizzatori sia ora (gli 800 milioni di Fsc «non sono sufficienti se li deve fare il pubblico e sono inutili se si faranno in project financing») sia nello scorso governo («dovevamo dare un’impronta, ma Pierobon aveva altre idee…»), sincero nell’ammettere tanto i franchi tiratori meloniani all’Ars sulle Province, «così come in tutto il centrodestra, a partire dal partito del governatore», quanto le «nostre fibrillazioni sulle nomine dei manager». Del resto, Assenza, mancato assessore regionale perché a Roma gli hanno preferito altri, è il simbolo di una minoranza silenziosa (ma lui, quando parla, è senza filtri) di un partito che in Sicilia è cresciuto tanto aprendo le porte. E oggi a Sala d’Ercole si ritrova col gruppo più numeroso, in cui nessuno dei 13 deputati può fregiarsi di non avere nel curriculum matrici giovanili né esperienze forziste o centriste, lombardiane o “bellissime”, se non addirittura dem. E ciò, in fondo, significherà qualcosam.barresi@lasicilia.it