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L'inchiesta

Cellulari nelle carceri: così i detenuti gestiscono affari con Iphone o microtelefoni

L’ultima indagine partita dal Piemonte e arrivata in Sicilia conferma la facilità con cui in prigione si può continuare a tenere contatti con l’esterno

Di Laura Distefano |

«Sono stato il capo fino al giorno in cui ho deciso di collaborare. Per dare gli ordini usavo un telefonino che avevo a disposizione in carcere». Parlava così un giovane boss nel suo primo interrogatorio da pentito. Per anni aveva gestito il clan comodamente dalla sua cella. Senza fatica. Senza lettere in codice, libri sottolineati da far recapitare, messaggi cifrati nei colloqui. Uno squillo. O addirittura un messaggio whatsApp. Le carceri sono dei groviera, nonostante gli sforzi e il lavoro della polizia penitenziaria, dove riescono ad arrivare telefonini di qualsiasi modello e taglia. Dagli ultimi modelli di Iphone ai piccolissimi dispositivi. E molti istituti penitenziari sono addirittura selezionati – in caso di doversi costituire per un blitz o un’espiazione pena – per la facilità con cui si può avere a disposizione uno smartphone. E in Sicilia, diverse carceri sono finite al centro di inchieste giudiziarie.

L’inchiesta di Asti

Appena una settimana fa, una maxi operazione è partita dalla Procura di Asti proprio sul “traffico” di telefonini nelle carceri. La banda criminale sarebbe riuscita a far recapitare ai detenuti droga e telefoni cellulari usando i droni.La gang in soli tre mesi sarebbe riuscita a incassare – secondo la squadra mobile piemontese – oltre 100mila euro. I telefonini sarebbero stati consegnati nelle carceri siciliane di Agrigento e Catania. Oltre a diverse altre nella penisola. Ci sarebbe stata anche una sorta di tariffario: 1.000 euro gli smartphone e 300 euro i microtelefoni. I poliziotti hanno messo sotto intercettazione ventuno utenze: per ricostruire la filiera dell’organizzazione criminale gli investigatori hanno ascoltato diecimila telefonate. Per capire il giro d’affari, basti pensare che sono stati sequestrati due droni e sessanta tra sim, telefoni, microtelefoni e strumentazione varia. Ma sono decine le indagini che hanno portato a scoperchiare bande criminali che operavano all’interno delle mura penitenziarie. A Palermo, a Trapani, ad Augusta.

La droga in carcere

Attraverso i cellulari i capi detenuti ordinavano la merce da rivendere (tra cui anche la droga) che poi, alcune volte con la complicità di pubblici ufficiali infedeli, riuscivano a far entrare nelle carceri. Nel 2021, c’era stato il blitz Preason Dealer, che documentava come i rifornimenti avvenivano durante le visite in infermeria. I detenuti si inventavano malesseri o infortuni pur di poter lasciare le celle. E nel tragitto trovavano il modo di poter avere il pacchetto infiocchettato all’esterno.Oltre a concludere affari, i telefonini ai detenuti servono per avere un collegamento diretto con il mondo “fuori”. E se parliamo di mafiosi, avere un contatto con i boss a piede libero. Nel recentissimo blitz Leonidi, scattato poco prima di Natale, il rampollo della famiglia catanese di Cosa nostra Seby Ercolano (figlio dell’ergastolano Mario) telefonava all’affiliato del Villaggio Sant’Agata di Catania, Salvatore Gurrieri detto “il puffo”, per poter mandare messaggi al padre detenuto nello stesso carcere. In quel caso il giovane aveva l’esigenza di procurarsi una pistola per poter dare una risposta ai Cappello dopo una sparatoria. In un’altra occasione Gurrieri chiamava all’esterno il suo “referente” Davide Finocchiaro per inoltrargli la richiesta di un detenuto di prestigio. Precisamente Turi Battaglia, uomo di forza dei Santapaola-Ercolano del Villaggio. L’esigenza era fare un bonifico per poter pagare uno smartphone. Battaglia spiegava che «non aveva più il cellulare» e che «aveva bisogno subito di 700 euro per poterne comprare un altro in carcere». «Mi servono… mi servono… però subito… per prendermi questo coso… c’è un’opportunità… eh… settecento euro mi servono. Mi raccomando non mi fare fare brutta figura», diceva il mafioso detenuto.

L’inasprimento delle leggi

Da pochi anni, da quando il fenomeno è diventato dilagante, c’è stato un inasprimento dal punto di vista normativo. L’articolo 391-ter del codice penale, introdotto dal decreto sicurezza 2020, ha elevato a reato il comportamento di chi introduce telefonini in carcere. E la pena prevista è da 1 a 4 anni di reclusione. Un detenuto catanese nel 2018 fu trovato, grazie al metal detector, in possesso del cellulare ben nascosto in una parte intima del corpo. Il Tribunale lo ha condannato, ma ora la difesa ha impugnato citando proprio la nuova normativa. Ma essendo il reato commesso in un periodo antecedente non ci può essere contestazione e quindi è stato chiesto alla Corte d’Appello di assolverlo.

I numeri

Ma andiamo ai numeri. Secondo i dati del Ministero della giustizia, in tre anni nelle carceri italiane sono quadruplicati i casi di detenuti trovati in possesso di un telefono cellulare: erano 355 nei primi nove mesi del 2017 e sono diventati 1.412 a fine settembre 2019, con 317 telefoni rinvenuti nella regione Campania e 92 nella regione Sicilia. Una medaglia d’argento di cui non andare certamente fieri. La situazione è davvero allarmante. Pochi mesi fa il procuratore di Napoli Giovanni Melillo, parlando all’Antimafia nazionale, ha scattato una fotografia davvero preoccupante: « Il carcere è il luogo dove lo Stato esercita una assai limitata capacità di controllo. Sono fuori controllo, vi dominano le organizzazioni mafiose, i cellulari vi entrano quotidianamente e non li sequestriamo neanche più talmente tanti sono. In alcune carceri vi sono autentiche piazze di spaccio. Nei 190 istituti italiani, secondo i dati del 2017, sono stati ritrovati 937 tra cellulari e sim: quasi due per ogni carcere. Questo significa che per i capi delle organizzazioni criminali è una consuetudine diffusa impartire ordini con i telefonini ». E ha aggiunto: «Le baby gang sono telecomandate dai boss in cella». In ballo non c’è solo la sicurezza di un carcere. C’è molto di più. Da un cellulare si possono ordinare estorsioni, rapine ma anche omicidi. E non è un anno in più di reclusione che può far paura a chi ha già messo in conto di trascorrerci l’intera vita dietro le sbarre.

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