MAFIA
L’esattore, il “pizzino”, il passo falso: nelle carte dell’inchiesta “Sabbie mobili” l’evoluzione delle estorsioni a Catania
L’inchiesta porta a identificare decine di vittime: purtroppo non tutte ammettono di pagare la tangente al clan
È l’una di notte. Una notte di fine agosto prima del lockdown. In un locale del centro storico si sente il tipico brusio di chi ha voglia di fare festa tra una fetta di pizza e un boccale di birra fresca. I camerieri stanno cercando di chiudere la serata. All’improvviso, però, si sente suonare il telefono. Dall’altro capo del filo chiedono di parlare con il titolare. Il ristoratore prende la cornetta e l’atmosfera si trasforma: «Forse non l’hai capito, prepara 100.000 euro e trovati un amico, forse non l’hai capito che non sto scherzando». L’imprenditore, ancora incredulo, chiede chiarimenti. La risposta lo gela: «Forse non hai capito, prepara 100.000 euro». Quindici minuti dopo squilla nuovamente il telefono: «Forse non l’hai capito che non stiamo scherzando, prepara 100 mila euro o te li facciamo saltare tutti e due».
Una minaccia che non è sottovalutata. La denuncia arriva alla Squadra Mobile che immediatamente apre un’indagine ad hoc coordinata dal pm Rocco Liguori.
Da qui parte l’inchiesta “Sabbie Mobili” che rade al suolo la squadra di Lineri della famiglia catanese di Cosa nostra. Una cellula del clan Santapaola-Ercolano che vede ai vertici l’ex Malpassotu Gino Rannesi e i fratelli Giuseppe, Carmelo e Salvatore.
La polizia – dopo aver raccolto la testimonianza del titolare del noto ristorante catanese – attiva una serie di accertamenti incrociati sull’utenza dalla quale sono partite le chiamate intimidatorie. In poco tempo la mobile concentra le attenzioni su Nunzio Mannino, che finisce sotto intercettazione. La sua voce ha un tratto distintivo ben preciso: «Quando i toni con l’interlocutore sono accesi soffre di un evidente balbettio», annota la gip Marina Rizza nelle quasi 200 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Quel balbettio permette agli investigatori di chiudere il cerchio. A settembre del 2019, alla pizzeria arriva un’altra chiamata che finisce – anche questa – sul tavolo del pm.
Mannino compie un passo falso la notte tra il 15 e il 16 settembre: assieme ad Alessandro Di Stefano – come registrano le telecamere – si presenta al locale per pressare le richieste di pizzo. In un primo momento fa da palo, facendo esporre il complice. Poi entra in scena quando c’è da consegnare al ristoratore due cartucce 7,65. Una volta messe in mano le pallottole all’imprenditore, Mannino lo minaccia di morte: «Per questa volta te li pigli, la prossima volta te li tiro addosso».
L’indagato finisce nel mirino della Squadra Mobile che, intercettandolo e pedinandolo, ricostruisce una fitta rete di estorsioni ai danni di imprenditori che operano in vari settori economici. Nel mirino di Cosa nostra c’è un’azienda di estrazione lavica che regolarmente avrebbe pagato la tangente al clan. Mannino ad un certo punto – precisamente a novembre 2019 – si allontana dal clan e non riscuote più le tangenti.
Salvatore Rannesi però corre ai ripari e con il suo fidato Alfio Currao cerca dei supplenti per riscuotere il pizzo. Una delle vittime, sentito dai pm, conferma il cambio nella figura dell’esattore. Fabrizio Currao e Gianluca Geraci sono alcuni degli indagati che avrebbero assunto questa mansione all’interno della cellula mafiosa, ma il proprietario di una cava lavica si sarebbe rifiutato di pagare non riconoscendoli. «Questo non conosce nessuno», si lamenta Fabrizio Currao con Geraci. Che per risolvere la situazione propone di parlare con il padre Alfio: «Saliamo un secondo da mio papà, che gli spieghiamo ‘sto fatto».
Passa qualche mese e nell’estorsione all’azienda di lavorazione della pietra lavica diventa protagonista Alfio Rannesi, figlio di Salvatore. La polizia, grazie a una precisa telecamera, intercetta sulle curve dell’Etna un’auto con una targa di prova. Le indagini portano a Giuseppe e Natale Donato. I loro nomi diventano la chiave per il sequestro del libro mastro delle estorsioni.
A maggio 2020 le restrizioni della pandemia si allentano e le attività illecite del gruppo di Lineri «ricominciano – scrive la gip – a piena ripresa». Ma solo in autunno il gruppo mafioso riesce a riprendere in mano gli affari. Alfio Rannesi, prima di andare a incassare alla cava di pietra lavica a ottobre, sceglie di confrontarsi con Natale Donato nell’officina di via Ferrara a Lineri. Il boss di Lineri arriva a bordo di un’Alfa Romeo, ma non trova l’esattore del clan. Che però è avvertito dal figlio Giuseppe. A quel punto il piano cambia e per accelerare le cose Alfio Rannesi passa a prendere Donato senior «direttamente a casa» per fare il giro di riscossione da Milo a Nicolosi.
Gli investigatori della Squadra Mobile sono appostati e seguono una delle consegne del pizzo in diretta. L’imprenditore taglieggiato consegna a Natale Donato la busta chiedendogli: «Ma che fu?» (riferendosi alla mancata visita del mese precedente). «Am’avutu problemi», confessa l’indagato mettendosi i soldi nella tasca sinistra della tuta. Ma non ha il tempo di fare nulla, perché la polizia interviene e lo arresta (è già stato condannato in abbreviato).
Gli agenti dell’antiracket trovano due mazzette di soldi – una da 6 banconote da 50 e un’altra da 5 – e un “pizzino” ritenuto dagli inquirenti “la carta delle estorsioni” del gruppo di Lineri. I nomi delle aziende sottoposte a estorsione sono indicate con dei nomi in codice, come ad esempio «Frnic» che per gli inquirenti sarebbe l’impresa di pietra lavica. Impresa che, per come ammesso dal titolare, versa soldi a cosa nostra da almeno 30 anni. Prima al clan del Malpassotu di Giuseppe Pulvirenti, deceduto da diverso tempo, e poi alla squadra di Lineri della famiglia Santapaola-Ercolano. La riscossione negli anni Novanta – è ricostruito nell’ordinanza della gip – è curata da Gino Rannesi, poi avrebbe preso il suo posto il fratello Carmelo. A seguire Francesco “Ciccio” Toscano, Carmelo Litrico, Nunzio Mannino, Antonio Distefano, Pietro Vittorio. Nelle fasi più recenti spuntano all’incasso Geraci, Donato e Currao. E naturalmente Alfio Rannesi.
L’inchiesta porta a identificare decine di vittime: purtroppo non tutte ammettono di pagare la tangente al clan. Gli imprenditori reticenti sono finiti nel registro degli indagati.
Le indagini documentano il volume d’affari delle estorsioni che sono ritenute dagli inquirenti la principale entrata nel bilancio della cosca di Lineri. I Rannesi e i loro gregari avrebbero guadagnato dal pizzo incassato circa 70 mila euro l’anno. Ogni impresa o esercizio commerciale avrebbe versato un pizzo mensile che varia dai 250 ai 300 euro. Una tassa alla mafia che a Catania purtroppo molti ancora sono disposti a pagare. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA