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Il personaggio

Francesco Lombardo, quella volta che anche il fratello finì invischiato (ma poi prosciolto) in una vicenda di mafia

Giampiero Lombardo nel 2008 finì in una ordinanza sui favori ai clan palermitani sui mixa schermi pubblicitari

Di Mario Barresi |

 Una delle poche certezze che emergono da un blitz tanto fulmineo quanto scarno di dettagli (anche dopo gli arresti) è che il “trojan” della Squadra mobile stava spiando il cellulare del mafioso, ma il politico era sotto osservazione da un po’. Un «servizio mirato», evidentemente legato a un’attività d’indagine partita da specifici indizi, che a Palermo provoca il secondo terremoto a due giorni dal voto. In manette Francesco Lombardo, geometra di 53 anni, candidato nella lista di Fratelli d’Italia, assieme a Vincenzo Vella, 56 anni, boss di Brancaccio, già condannato tre volte per associazione mafiosa. Le porte del carcere, per entrambi, si sono aperte ieri: l’accusa è scambio elettorale politico-mafioso. 

Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Paolo Guido ha contestato il 416 ter: nella nuova formulazione dell’ipotesi di reato, la sua configurabilità scatta non soltanto quando il politico «offre o promette denaro o altre utilità», ma anche quando manifesta la sua «disponibilità» ai mafiosi. E così è stato per Lombardo. Stavolta è lui ad andare dal mafioso della famiglia di Corso dei Mille a chiedere voti e non – come nel caso del recente arresto del forzista Pietro Polizzi in combutta con un costruttore in odor di mafia, Agostino Sansone – il candidato a ricevere la visita nel suo comitato elettorale. Ma perché il boss era a piede libero? Vella ha scontato due condanne definitive per associazione mafiosa, di recente è arrivata la terza (20 anni di carcere), ma la Corte d’Appello nel 2021 aveva annullato la sentenza per un vizio di forma: per questo era stato scarcerato. 

L’intercettazione ambientale decisiva è recentissima: dello scorso 28 maggio, quando Lombardo sarebbe andato a trovare Vella nel suo negozio di ortofrutta e avrebbe chiesto un sostegno per le elezioni comunali di domenica. La polizia ha immediatamente trasmesso l’intercettazione alla Procura che ha chiesto al gip – con un provvedimento firmato dall’aggiunto Guido, attuale coordinatore della Direzione distrettuale antimafia – la custodia cautelare in carcere per entrambi. Al culmine di un’inchiesta svolta in tempi rapidissimi e chiusa a ridosso della data delle elezioni. «Forse a due giorni dal voto se io fossi stato il magistrato avrei aspettato due giorni, ma non voglio fare polemica. Può darsi che abbia avuto esigenze cautelari», sibila Ignazio La Russa, braccio destro di Giorgia Meloni. Ma da fonti qualificate si apprende che il quadro probatorio sarebbe stato talmente «chiaro» da far scattare le manette senza indugio, con investigatori e magistrati sicuri del fatto loro, a maggior ragione visti i tempi di un’operazione che avvelena ancora di più la vigilia elettorale a Palermo.

Per intenderci: per arrestare un altro candidato (sempre del centrodestra) a 48 ore dalle urne, con l’effetto di un spirante sindaco della coalizione, Roberto Lagalla, più che mai in affanno e di alcuni esponenti dell’alleanza che sussurrano il sospetto di «giustizia a orologeria», ci saranno davvero delle prove schiaccianti nella richiesta di misura cautelare. E, secondo i pochi elementi trapelati dagli inquirenti, queste prove ci sono. Tutte.

«Palermo è diventata un’emergenza nazionale», attacca il leader del M5S Giuseppe Conte. E il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, affonda sul candidato sindaco: «Lagalla annuncia dimissioni se i suoi partiti non faranno pulizia. Doveva pensarci prima. Ora è tardi. Ha il dovere di proteggere non se stesso, ma Palermo. Si faccia da parte». 

Nel centrodestra, nel silenzio degli altri leader alleati, il partito più in imbarazzo, ovviamente, è Fratelli d’Italia. «Ci costituiremo parte lesa dopo quanto successo a Palermo», assicura la Giorgia Meloni, all’Aquila per incontro elettorale. «Noi, come tutti quanti – aggiunge – scopriamo oggi (ieri, ndr) quello che è accaduto: questa persona che, prima d’ora, non aveva alcuna ombra su di sé ha fatto qualcosa di intollerabile in campagna elettorale. Trovo giusto, per cui, che intanto sia stata arrestata e poi è giusto che ne siamo venuti a conoscenza». E anche il presidente dell’Antimafia nazionale, Nicola Morra, a conclusione dell’istruttoria dalla quale sono emersi i nomi di 18 candidati “impresentabili” a livello nazionale (quattro dei quali a Palermo: il dettaglio nell’articolo a pagina 3), afferma che – secondo il codice di autoregolamentazione della commissione e la legge Severino – Lombardo sarebbe stato «presentabilissimo». 

E in effetti è davvero così. Lombardo, ex vicepresidente del consiglio comunale di Villabate, è incensurato. «Una persona ambiziosa, ma assolutamente al di sopra di ogni sospetto», lo descrivono nel suo partito. Eppure, se la politica avesse la reale volontà di trovare degli anticorpi, anche in questo caso ci sarebbero stati alcuni elementi-spia. Legati a una vicenda giudiziaria che aveva coinvolto il fratello del candidato arrestato ieri: Giovanni Lombardo, meglio noto come Giampiero. Che era già riuscito a raggiungere l’obiettivo – diventare consigliere comunale – per cui il familiare è stato incastrato nel colloquio col boss.

Eletto nella lista di Forza Italia nel 2007 (al decimo posto su 11 seggi, con 2.036 voti), a sostegno del sindaco eletto Diego Cammarata, Giampiero Lombardo incappa in un’inchiesta per mafia. Quella in cui il protagonista è un vigile urbano di Palermo, Antonino Corsino, che telefonava al boss Francesco Di Pace, pezzo grosso del clan dei Lo Piccolo, ogni volta che al comando di via Dogali veniva programmato un controllo sui maxi-schermi piazzati in città, un business che Cosa nostra voleva monopolizzare. L’indagine, scattata nel 2008 con 40 arresti, si fondava anche su intercettazioni del Ros, che citavano l’allora assessore comunale Eugenio Randi, ma anche il consigliere forzista Giampiero Lombardo. Nel 2007, infatti, Randi e Lombardo venivano spiati al telefono mentre parlavano con Di Pace di un delibera che avrebbe dato il via libera ai maxi-schermi nel regolamento comunale sulla pubblicità. L’assessore finì indagato per abuso d’ufficio; Lombardo, invece, per brogli elettorali. In una telefonata con il mafioso Di Pace, il fratello del candidato di FdI arrestato ieri si vantava: «Hai visto che Randi mi ha superato solo per sette voti, ma gli ho regalato 150 voti dentro l’urna… glieli hanno regalati con l’intrallazzo». La Digos e il pm Maria Forti scandagliarono fra le schede elettorali, ma senza trovare riscontri. Il finale? Lombardo e Randi archiviati. L’ex consigliere forzista ci riprova, nel 2012, candidandosi con la civica di centrodestra “Amo Palermo” a sostegno di Marianna Caronia: 724 voti, non eletto. 

Palermo non è Villabate, ma nemmeno New York. Con la semplice memoria di un “precedente” del genere, al di là dell’esito giudiziario, può essere legittimo – dal punto di vista non dei codici antimafia, ma dell’etica politica e della capacità di autoselezione dei partiti – che chi decide di mettere in lista Lombardo si ponga almeno dei dubbi d’opportunità? Twitter: @MarioBarresi   COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA