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Sicilia ancora arancione, ecco i motivi (e le colpe) del fallimento in attesa del “giallo”

Di Mario Barresi |

Catania – Era già tutto previsto. Soltanto chi non conosce il sistema di attribuzione dei colori delle zone di rischio poteva nutrire speranze (infondate) dipinte di giallo. La Sicilia resta in zona arancione. L’unica assieme a Sardegna e Val d’Aosta. E non perché i dati dell’ultima settimana rilevati dalla cabina di regia nazionale siano tanto peggiori di altre regioni. L’indice Rt, infatti, aveva già condannato l’Isola a un verdetto già scritto: per tornare in zona gialla è necessario che sia sotto l’ 1 almeno per due settimane consecutive. Il report di ieri (26 aprile-2 maggio) fissa il dato di Rt puntuale a 0.89, con intervalli compresi fra 0.85 e 0.92 e classificazione di rischio “bassa”. In Sicilia sono stati registrati nuovi 5.973 positivi (-17,% rispetto al dato precedente e -20,4% in 14 giorni) e il tasso di positivi è sceso dal 13 all’11,3%; in calo i nuovi focolai (785), mentre i casi non tracciati ammontano a 2.717. L’occupazione di terapie intensive e degenze Covid è sotto controllo: 19% e 30%. Se nel prossimo monitoraggio, com’è prevedibile spulciando alcuni dati grezzi, la Sicilia avrà un Rt ancora minore di 1, scatterà finalmente la zona gialla. Se ne riparla venerdì prossimo: il purgatorio arancione dovrebbe finire domenica 16.

E mentre nel resto d’Italia (dove bar e ristoranti hanno già riaperto) il dibattito si sposta sull’orario del coprifuoco e sulle regole per turisti e lidi balneari riaperti, il lungo “inverno” della Sicilia sembra non finire mai. E quella mappa quasi gialla, con la chiazza d’arancione sotto lo Stretto, è l’ennesimo affronto alle categorie produttive.

La Sicilia, dopo essere stata un’oasi a basso rischio per lunghi mesi (soprattutto nella prima ondata) è di fatto indietro di due settimane rispetto a tutto il resto del Paese. A La Sicilia questo «scostamento» lo avevano segnalato, due mesi fa, Carmelo Iacobello (primario di Malattie infettive al Cannizzaro di Catania) e Cristoforo Pomara (componente del Cts regionale), fornendo spiegazioni e soluzioni. Ma la situazione è rimasta identica. E la zona gialla arriverà, puntualmente, con due settimane di ritardo rispetto al resto d’Italia. Perché? Cosa non ha funzionato negli ultimi mesi?

Partiamo dall’ipotesi più maliziosa. C’entra qualcosa l’inchiesta sui falsi nei dati Covid, con l’assessorato regionale alla Salute accusato dai magistrati (di Trapani prima e di Palermo poi) di truccare le carte anche per evitare le misure restrittive di Roma? Ci spieghiamo meglio: può essere che una trasmissione corretta dei dati abbia appesantito la situazione della Sicilia? Proprio dopo gli arresti del 30 marzo si registra un incremento di contagiati (dai precedenti 6.189 a 7.639 il 5-11 aprile, fino agli 8.217 del 12-18 aprile), ma anche di nuovi focolai (record di 1.105 fra il 12 e il 18 aprile) e di positivi privi di tracciamento (il picco di 3.749 è proprio nella settimana successiva all’inchiesta). Ma fonti di ministero della Salute e Iss, consultate da La Sicilia, tendono a minimizzare gli effetti di un’eventuale diversità della matrice di dati. E invitano a notare che l’indice Rt nell’Isola tocca il massimo di 1.22 con dati compresi fra il pre e il post inchiesta (29 marzo-4 aprile), mentre dopo scende.

E allora, visto che la tesi “complottista” (compresa una sorta di “punizione” di Roma nei confronti della Sicilia travolta dallo scandalo dei dati falsati) sembra non reggere, le spiegazioni vanno trovate altrove. Partendo da un dato, soltanto in apparenza banale, che lo stesso Iacobello ci consegna: nell’Isola, scampata ai contagi record del Nord nel 2020, era statisticamente scontato che la seconda ondata avrebbe registrato tassi più significativi. Eppure altre regioni del Sud hanno avuto dati meno pesanti e sono in zona gialla da settimane.

Quindi si va al tema delle misure. La Regione, a inizio anno, non ha voluto adottare le ulteriori strette consigliate dal Cts (ad esempio: tre settimane consecutive di “cura rossa”), che non viene consultato da gennaio scorso. S’è andati avanti con le zone rosse locali: decine e decine, spesso su segnalazione dei sindaci, puntualmente disposte dal governatore Nello Musumeci. Che ha avuto il coraggio politico del lockdown, fra i veleni, a Palermo. Ma non Catania. E ora non è un caso che 1/3 dei nuovi casi si registrino proprio sotto il Vulcano. In materia di misure restrittive, però, c’è un fattore – decisivo secondo gli esperti – che non dipende dalla volontà della Regione: i controlli sul rispetto delle regole. Le scene notturne di follia nel centro storico etneo (giusta, ma forse tardiva, l’ordinanza di chiusura del sindaco Salvo Pogliese, che ora di domenica inibisce pure tutto il lungomare alle auto) sono soltanto la punta più clamorosa di un’inciviltà di massa. Favorita, è corretto rilevarlo, da una diffusa insufficienza di controlli, più volte invocati dal governatore ai prefetti, sul territorio. Per intenderci: le cartoline delle chiusure siciliane, nelle città quanto nei paesini, sono molto diverse fra la prima e l’ultima fase della pandemia. Tutto è diventato più semplice per chi ha voluto e vuole trasgredire.

Ma negli ultimi tempi s’è aggiunta un’altra variabile decivia: l’(in)efficacia della campagna vaccinale. Partita a inizio anno col vento in poppa, la Sicilia adesso arranca. E l’agognata immunità, per il gregge siciliano, sembra un orizzonte più lontano. Gli ultimi dati del ministero della Salute confermano l’Isola all’ultimo posto di molte classifiche. A partire dalla percentuale di dosi somministrate rispetto a quelle ricevute: 1.602.104 su 2.096.785, appena il 76,4% a fronte di una media nazionale dell’84,7% con punte del 90. Ma l’Isola, dove solo mezzo milione di abitanti ha ricevuto il richiamo, è fanalino di coda anche per inoculazioni a over 80 (72,1%) e fascia 70-79 anni (53,8%). Secondo un modello statistico sviluppato dal Sole-24Ore, «l’ultima media mobile a 7 giorni di dosi somministrate ogni giorno in Sicilia è di 27.137» e dunque «a questo ritmo ci vorrebbero 6 mesi e 12 giorni per coprire il 70% della popolazione». L’obiettivo dell’immunità, quindi, «sarebbe raggiunto il 15 novembre 2021», quasi tre mesi dopo la previsione di agosto del governo. Il ritmo di vaccinazioni, sul quale pesa molto il tasso di rinunce di destinatari di AstraZeneca (i pochi casi sospetti hanno impaurito i siciliani molto più che altrove), sta riprendendo quota e negli ultimi giorni il governatore-assessore ha anche anticipato i tempi di Roma su over 50 e isole minori. Ma ancora non basta. Perché, ad esempio, nell’Isola è ancora residuale l’apporto dei medici di famiglia. «Se tempestivamente coinvolti e ascoltati, avrebbero potuto dare un contributo decisivo alla campagna vaccinale. E invece sono stati chiamati poco più di un mese fa, senza fornirgli – afferma il segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo un’ adeguata organizzazione di supporto e “costretti” a rincorrere pazienti a loro sconosciuti». Al di là delle schermaglie politiche, è vero che la Regione ha aperto un pesante contenzioso con i medici di famiglia, che, accusati da Musumeci quasi di “diserzione”, hanno risposto per le rime: «Distorcere la realtà consapevolmente per allontanare l’attenzione dei cittadini da ritardi e insufficienze della macchina organizzativa anti-Covid è un fatto grave».

Ma è ancora tempo di aizzare polemiche? Magari no. Oggi bisogna ancora leccarsi le ferite di una regione in zona arancione, assumersi delle precise responsabilità se ci fosse qualcuno con l’onestà intellettuale necessaria per farlo. E poi dovrebbero seguire i fatti, dopo tante parole: obiettivi misurabili, strategie fattibili, risultati. Il giallo, la prossima settimana, arriverà di sicuro. Ma i siciliani hanno pagato già un prezzo. Alto. Dobbiamo ancora continuare a farci del male?

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