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Bagherial'assedio della volgarità alla bellezza

Bagheria, l’assedio della volgarità alla bellezza

I luoghi dell'immaginario: la città dei mostri di Villa Palagonia, di Guttuso, di Buttitta, di Dacia Maraini, di Scianna, di Tornatore VIDEO FOTO

Di Salvatore Scalia |
Bagheria è la città dei mostri di Villa Palagonia, di Guttuso, di Buttitta, di Dacia Maraini, di Scianna, di Tornatore, la città in cui Bernardo Provenzano da latitante si dilettava a raccogliere asparagi e in cui Matteo Messina Denaro celebrava i suoi amori. Bagheria mito europeo, capitale dell’immaginario siciliano e dell’offesa ad esso, è un enigma sospeso tra il sublime e la trivialità.

Angelo Restivo, un uomo di 64 anni in guerra contro tutti, semplifica con una frase lapidaria: “Non c’è nulla di più pericoloso dell’ignorante ricco.” Si gode l’effetto delle sue parole, poi spiega: “I putiari hanno comprato le ville dei nobili e le hanno trasformate in magazzini di limoni, in stalle, in stabilimenti, per dimostrare che i soldi potevano più del blasone.” Parla con l’amarezza e la rabbia di chi, amando la sua città, rimpiange la perdita della memoria. Perciò ha restaurato con soldi raccolti tra i turisti l’orologio di Palazzo Butera. “Ora mi tocca dargli la carica, altrimenti si ferma.”

Ci troviamo in un’ampia stanza di Palazzo Cutò, di cui un’ala è stata concessa dal comune per nove anni all’Associazione culturale Giuseppe Bagnera, matematico bagherese insigne che fu maestro di Fermi e in corrispondenza con Einstein; durante il fascismo non volle mai indossare la camicia nera preferendo andare a lezione in tight. Presidente e socio unico dell’associazione è Restivo, così può litigare solo con sé stesso.

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Editore, fotografo, collezionista, vive alla giornata. In origine era gioielliere ma una rapina lo rovinò. Dopo ha fatto diversi mestieri: ha venduto auto, libri, ha inventato calendari, finché ha esposto le sue foto in Argentina, Australia, Francia e a Londra.

“Prima non mi pagavano perché non ero nessuno, ora non mi pagano perché non ho prezzo.”

Si racconta che una volta dal balcone rinfacciò a un sindaco, al seguito di una processione religiosa, di non mantenere le promesse.

“Ogni bagarioto – sentenzia – è un piccolo mafioso, per mentalità e comportamenti quotidiani. Chi paga il pizzo deve essere perseguitato perché mantiene cosa nostra, chi paga le tasse va punito perché mantiene una classe politica di magnaccia.”

Le stanze traboccano di cimeli, quadri, cartoline, libri, le traduzioni della  Divina Commedia e dell’ Eneide in siciliano ad opera di Giovanni Girgenti, di attrezzi in disuso delle botteghe artigiane. Su un tavolo un volume con le immagini delle opere di Emilio Murdolo pittore di carretti. Su una parete campeggia una riproduzione del grande quadro di Guttuso sulla battaglia del Ponte dell’Ammiraglio tra borbonici e garibaldini nel 1860.  È un omaggio all’artista dei fratelli Ducato, anch’essi pittori di carretti. Tra libro e quadro, nelle figure e nei colori si coglie lo scambio vitale tra arte colta e popolare.

Tra le ultime acquisizioni l’archivio del notaio Notarbartolo. Tra i cimeli più curiosi un quaderno con l’elenco e le motivazioni delle multe elevate tra il 1907 e il 1910.

“Accumulo di trunzi dinanzi la porta”, o ancora “per latrina senza tappo.” Qualcuno era stato sorpreso mentre “rovesciava vasi di materiale fecale.”

La lettura rivela il lato miserabile della città delle sfarzose ville costruite nel Settecento per la villeggiatura dei nobili palermitani.

Tra i bagheresi geniali, Restivo cita Pietro Tomasello, inventore dell’aranciata in polvere, e un Verdone che inventò la  buatta per le conserve, in tempi in cui l’industria conserviera era un’attività importante e tra gli industriali si annoverava anche la famiglia Caltagirone.

Girando per Bagheria si coglie l’assedio asfissiante della volgarità alla bellezza. L’avidità ha divorato giardini, conquistato ogni metro di terreno: le ville barocche, concepite per ergersi isolate tra alberi e fiori, sono soffocate dalle anonime geometrie dell’architettura di massa.

Anche il giardino residuo di Villa Palagonia si è salvato a stento. Tra il 1932 e il 1934 era stato approvato un progetto che prevedeva 24 abitazioni, fu bloccato nel 1939 dalla legge fascista che pose un vincolo ai beni monumentali. L’obbligo di costruire a più di cinquecento metri di distanza non è stato rispettato. Persino un’ala del municipio è costruita su terreno proibito.

Allo scempio delle ville hanno contribuito attivamente anche i proprietari aristocratici, che degli attributi del blasone avevano conservato solo l’avidità.

Nel salone degli specchi di Villa Palagonia le figure si moltiplicano e si rimandano all’infinito, ognuno è sé stesso e tantissimi altri; basta spostarsi perché il gioco si ripeta in altre pose e altri riflessi, spezzettandosi l’immagine in una miriade inquietante di rimandi.

La porta d’ingresso è sovrastata da una scritta:

Specchiati in quei cristalli e nell’istessa

magnificenza singolare contempla

di fralezza mortale l’imago espressa.

Ferdinando Gravina y Crujillas, principe di Palagonia, conosceva la fragilità dell’animo umano, gli smarrimenti, le illusioni, gli abbagli e gli inganni dei sensi. Sapeva che la follia è compagna della ragione, che un disguido o una distrazione della natura producono esseri mostruosi, e aveva pietrificato le figure della sua fantasia rendendole, attraverso l’opera degli scultori al suo servizio, incubi a occhi aperti, fatti della materia dei sogni deperibile come la pietra calcarea utilizzata.

I viaggiatori del Grand Tour avevano diffuso in tutta l’Europa la fama della villa dei mostri, divenuta simbolo letterario. Goethe, venuto nel 1787, aveva perfino coniato l’aggettivo palagoniano. Del principe, che incede maestoso sull’immondizia lungo il Cassaro a Palermo e che raccoglie elemosine per liberare i cristiani prigionieri in Barberia, ha lasciato un ritratto indimenticabile nel  Viaggio in Italia. Né ha tralasciato di riferire le critiche rivolte a questo aristocratico, che sperperava il denaro per le assurdità della sua villa mentre per le opere di carità si rivolgeva agli altri.

Bagheria è città dei colori, del sole acceso siciliano, del cuore e della passione, tutti elementi dell’arte popolare dei pittori di carretti, che hanno tramandato e diffuso le gesta dei paladini di Francia, di Garibaldi e dei Mille, di Cavalleria Rusticana, di Santa Genoveffa. Per quanto anacronistico possa sembrare nell’era dei motori e della tecnologia, nella bottega dei Ducato si lavora ancora. Michele prosegue una tradizione giunta alla terza generazione e vive di questo lavoro. Lo troviamo impegnato a dipingere la barba di un Garibaldi ieratico come un santo. L’Eroe dei due mondi piace ancora ai suoi committenti, spesso figli o nipoti di carrettieri desiderosi di rivivere l’universo fantastico di cui si è nutrita la loro immaginazione infantile.

Alle pareti del laboratorio alcuni biglietti a firma Renato Guttuso. In uno del 1976 scrive: A Michele Ducato

con l’augurio di essere degno di questo glorioso nome 

Renato Guttuso pittore popolare.

Nel definirsi pittore popolare, ostentava una certa civetteria oltre a richiamare la sua militanza nel Partito comunista, ma c’era soprattutto il riconoscimento di essere debitore ai pittori di carretto, alla loro capacità di affascinare, attraverso forme e colori, gli umili, rendendoli partecipi dei grandi miti della letteratura, della fede e della storia.

A questa grande tradizione attinge la stilista Filly Cusenza. I modelli esposti nel laboratorio traboccano di figure fantastiche.

“Abbiamo un patrimonio culturale unico, una memoria che tutti c’invidiano.”

Tra architettura e pittura, a Bagheria l’educazione estetica dello sguardo è affinata più che altrove, non a caso è patria di due figure di rilievo internazionale come il fotografo Ferdinando Scianna e il regista Giuseppe Tornatore, che alla sua città ha dedicato un film. L’ha però ricostruita in Tunisia come un giocattolo dell’infanzia su cui non si vuole vedere le rughe e i guasti del tempo.

La realtà infatti è una perenne disfunzione. Se vuoi andare a vedere il museo Guttuso a Villa Cattolica, lo trovi chiuso per restauri. Finora è stata un’esperienza fallimentare, pochi visitatori ed eccessivi i costi.

Forse sarebbe più semplice una visita ai santuari della mafia.

“Bagheria – si ribella il giovane sindaco Patrizio Cinque del Movimento Cinque Stelle – è città di cultura e non mafiosa. Cosa nostra è in tutta Italia e si occupa di droga. Si punta però a prendere i pesci piccoli. La vera mafia è quella che il potere non vuole colpire.”

Qualsiasi siano le intenzioni di un visitatore, finisce sempre con l’essere invischiato in racconti di mafia, ricostruzioni del potere criminale, i pentiti, i tentacoli sui morti e sul cimitero, la spazzatura in mano alle cosche palermitane, accuse e contro accuse. Il sindaco di 32 anni, che di mestiere fa l’assistente parlamentare regionale in aspettativa, ha il diritto di ritenere anacronistica la mafia, che però si respira nell’aria non fosse altro per la cronaca dell’ultima retata. Qui sembra che nessuno possa nascere senza un peccato originale, sia per la casa abusiva del padre in sanatoria, sia per un linguaggio che, anche se causato da una provocazione, non esprime sentimenti di fratellanza universale: “Ti strappo il cuore.”

Cinquantacinquemila abitanti, un dissesto finanziario di 66 milioni di euro, per cui persino alla mafia non restano che gli occhi per piangere, il Comune ha 385 dipendenti di cui 31 precari e 152 part time.

Le attività produttive sono ridotte al minimo, sopravvive una fabbrica di trasformazione degli agrumi, mentre la crisi edilizia ha falcidiato l’occupazione. I vigneti di un tempo ormai sono solo nello stemma; dei limoni meglio non parlare. Le cartine che li avvolgevano appassionano solo i collezionisti come Pietro Pagano.

“Bagheria è un dormitorio di Palermo,” dice Giuseppe Fumia redattore del giornale locale  Il Settimanale.

Le piccole glorie si conquistano per una particina o per una funzione nei film siciliani di Tornatore. Lorenzo Rizzo, vigile urbano in pensione e storico dei caduti delle due guerre mondiali, è stato il trovarobe. Il professore Pino Aiello ha contribuito alla ricostruzione degli ambienti recuperando mille piccoli oggetti della quotidianità di un tempo.  È invidiato per essere stato vicino a Monica Bellucci, ma, uomo colto e schivo, si ricorda soprattutto delle dodici ore di pioggia artificiale che ha dovuto subire per girare la scena della Festa del patrono San Giuseppe in  Baarìa.

Bagheria è anche memoria della voce tonante di Ignazio Buttitta, che recitava i suoi versi per tutta la Sicilia. Abitava sul mare, ad Aspra, luogo di cui mi raccontano un aneddoto, poco credibile ma ben costruito. Quando il Comune introdusse la raccolta dei rifiuti differenziata, nel borgo marinaro si offesero per la dizione frazione umida, essendo Aspra frazione e in riva al mare.

Ci si va per visitare il Museo dell’acciuga e incontrarne l’ideatore Michelangelo Balistreri. In lui sembra essersi trasferito lo spirito poetico di Buttitta, anche se meno ribelle e più sentimentale. Lo troviamo impegnato a guidare una piccola comitiva, tra cui due olandesi e due ragazze di Londra, tra strumenti di pesca, latte per le acciughe salate Marca Vaticano, fotografie, ancore, cordami, sonar, vari tipi di garum; spiega ogni cosa con perizia del mestiere e vaghezza del cuore. Rimpiange il passato: il mare ha perso musica, immagini e poesia. In uno stanzone, resti di barche, destinati alla demolizione, sono stati dipinti da numerosi artisti. Spiccano i ritratti di Falcone, Borsellino e Padre Puglisi.

Alla fine del tragitto, Michelangelo, accompagnandosi alla chitarra, canta i versi di  Fimmini siciliani e  A vuci da me terra.

Tu ca si luntanu

e nun canusci la me terra

e ‘ntra lu so distinu

vidi sulu mafia e guerra…

Tu l’ha vistu mai

u lustru di lampari

dintra li nostri cori

quannu puru u duluri

stancu di tuppuliari

addiventa amuri…

Cinquantadue anni, la quinta elementare, parlantina sciolta, una folta capigliatura e gli occhi buoni, Balistreri ha il senso degli affari: la fabbrichetta, avviata dal padre pescatore e trasformata in museo, è divenuta una realtà importante con 50 dipendenti. Spedisce acciughe siciliane persino in Giappone e Corea.

Gli hanno chiesto il pizzo, centomila euro, anche a rate, per i carcerati e le loro famiglie. Erano in due e li ha fatti arrestare. A Bagheria sono 38 gli imprenditori che si sono ribellati, segno che il clima è cambiato e che la crisi economica ha indebolito anche la mafia.

Balistreri ci congeda con una parabola sulle acciughe: sono preda dei pescecani quando restano sole, se stanno unite formano una palla vibrante che spaventa i predatori.

La morale è chiara, ma ci suggerisce una coda maligna: le acciughe possono sfuggire ai pescecani ma non all’uomo.

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