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Mazara, se la crisi fa più paura dei sequestri

Mazara, se la crisi fa più paura dei sequestri

Di Francesco Terracina |

MAZARA DEL VALLO – A Mazara del Vallo ci sarebbe stato da festeggiare il ritorno dei sette marinai scampati al sequestro davanti alle coste libiche dopo una rocambolesca fuga. Qualche centinaio di persone s’era dato appuntamento al molo Uno del porto vecchio, per attendere il comandante dell’Airone Alberto Figuccia e gli uomini del suo equipaggio, da queste parti diventati veri e propri eroi per aver raggirato i sequestratori e portato a casa la pelle. Ma non c’era aria di festa e l’entusiasmo è stato presto risucchiato dal buio pesto che al calar della sera copre quello che fu il porto peschereccio più importante d’Italia, dove delle 500 barche ne sono rimaste 100 a causa di una crisi che ha potuto più della paura dei sequestri: 130 negli ultimi 50 anni, uno ogni quattro mesi e mezzo.   Quando l’Airone attracca, 15 minuti dopo la mezzanotte, tra la gente e la barca c’è una barriera metallica presidiata dalle forze dell’ordine, che solo dopo alcuni momenti di tensione consentono alle mogli dei marinai – prima allontanate – di superare la cancellata. Bisognerà attendere un’ora affinché l’equipaggio venga fatto scendere, accompagnato da un lungo applauso e subito portato in auto verso i locali della capitaneria di porto, dove sarà interrogato per circa tre ore. Quando i quattro tunisini e i tre italiani escono dal palazzetto di due piani della Guardia costiera, ad attenderli ci sono una mezza dozzina di giornalisti e Wael Khedhri, 17 anni, figlio di uno dei marinai tunisini, mani in tasca e collo incassato nelle spalle, che alla tensione di questi giorni aggiunge i brividi per il freddo e l’umidità. Suo padre è il marinaio ferito di striscio a un piede per un colpo partito accidentalmente dall’arma di un soccorritore della nave Bergamini della Marina militare.   C’è anche Giovanni Tumbiolo, presidente del Distretto della pesca, che non è riuscito ad andare a letto perché chiusa una partita se n’è aperta un’altra: all’alba un gruppo di armatori l’ha chiamato per comunicargli che sei pescherecci erano stati precettati dalle nostre autorità per portare soccorso ai naufraghi dell’ennesima tragedia nel Canale di Sicilia, forse la più immane: 700 morti secondo la prima stima. «Tra i marinai – dice Tumbiolo – la solidarietà è fuori discussione. Ma allo Stato che legittimamente chiede il loro aiuto in un momento come questo, voglio ricordare che le famiglie dei marinai qui sono allo stremo. Andiamo a salvare vite, ma vorremmo che qualcuno salvasse anche le nostre». Se lo Stato è quello che deve riattivare l’illuminazione al porto, non c’è molto da sperare.   Da quando un pilone dell’elettricità è caduto – consumato dalla salsedine e lasciato lungo la banchina per tenere fresca la memoria dello scempio -, tutte le luci sono state spente. «Il Comune vorrebbe ripristinare l’impianto – dice il sindaco Nicola Cristaldi – ma la Regione ce lo impedisce perché non rientra nelle nostre competenze, ma al contempo non ha i soldi per trovare una soluzione».   Le indagini della magistratura sono il tema che meno interessa il comandante Figuccia, convinto che il sequestro sia stato orchestrato per consentire a una troupe televisiva che si trovava a bordo di fare uno scoop. Ma l’aspetto giudiziario è alquanto controverso: all’inchiesta della procura di Marsala, condotta dal pm Antonella Trainiti, se ne affianca un’altra a Catania, ufficio che ha iscritto per primo la notizia di reato, ancor prima che il peschereccio approdasse in Italia.   Nei confronti del militare libico salito a bordo dell’Airone e poi prelevato e condotto ad Augusta dalla nave Bergamini, l’iniziale ipotesi di reato era di sequestro di persona e violenza privata; ma sarebbe escluso l’arresto, mentre le autorità libiche ne chiedono il rilascio e la consegna alla propria ambasciata.

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