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«Ciao maschio» ecco come è cambiato l’uomo nel cinema italiano

«Ciao maschio» ecco come è cambiato l’uomo nel cinema italiano

Adolfo Franzò, fotografi ritrattista catanese, e i volti di tre generazioni di attori italiani

Di Ornella Sgroi |

Ciao, maschio italiano. Ed è un po’ un addio, un po’ un benvenuto, in un’epoca come quella attuale, in cui l’uomo latino sembra sfuggire ai binari imposti dal genere. Almeno nell’immaginario collettivo. Un commiato, nostalgico ma non troppo, da quell’idea di mascolinità forte e virile costruita da certe regole di costume e consolidata da certo cinema anni Settanta. Ma anche un saluto di accoglienza per un’immagine tutta nuova del maschio del ventunesimo secolo, partecipe della complessità del presente e capace di un’empatia e di una sensibilità che un tempo non gli erano concesse. Nella vita di tutti i giorni, così come sul grande schermo. Dove dominava il “prototipo” alla Lando Buzzanca de Il merlo maschio (1971, regia di Pasquale Festa Campanile) o alla Giancarlo Giannini di Travolti da un isolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974, regia di Lina Wertmuller), diventati volenti o nolenti icone maschili delineate con i toni del grottesco, anche e soprattutto nel rapporto con il sesso femminile. Maschere lontane anni luce dai ritratti dell’uomo contemporaneo, così immerso nella vita di ogni giorno da fare proprie le problematiche tipiche di una normalità ordinaria di cui è parte integrante. Marito, padre, figlio, compagno, che non fa più leva sul fatto di portare i pantaloni per sentirsi appagato. E magari opta per il dialogo, la comprensione e la collaborazione per sentirsi partecipe di quella realtà familiare da cui in passato tendeva invece a fuggire, mantenendo le distanze. Un cambio di rotta, questo, al passo con i tempi. Che tiene conto delle nuove dinamiche sociali e dei mutamenti che esse comportano sul costume, interferendo anche sul modo con cui le arti, prima su tutte il cinema, registrano e raccontano trasformazioni epocali come queste. Che si ripercuotono anche sulla personalità artistica degli attori, oggi sempre meno divi e sempre più uomini del loro tempo. Sempre più vicini alla gente comune. Di questa trasformazione è stato testimone oculare – è proprio il caso di dirlo, visto che il suo strumento di osservazione è la macchina fotografica – uno dei più celebri fotografi ritrattisti del mondo dello spettacolo, Adolfo Franzò. Catanese di orgine e romano di adozione, classe 1961 e trentacinque anni di esperienza sulle spalle nell’ambito dell’editoria e della pubblicità, tra cinema, tv, teatro, musica e sport. Da questa lunga carriera è nata la mostra Ciao, Maschio. Il Cinema italiano ritratto al Maschile (Riccione, Villa Mussolini, fino al 31 agosto), 83 foto-ritratti originali in bianco e nero che raccontano al contempo una spaccato del maschile ritratto dal cinema italiano, attraverso i volti di tre generazioni di attori a confronto in un ideale passaggio di testimone. Da Giannini e Buzzanca, appunto, ma anche Fabrizo Bentivoglio, Ennio Fantastichini, Sergio Castellitto, Diego Abatantuono, Luca Zingaretti e Toni Servillo – accomunati più per età che non per genere cinematografico – a Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassman, Stefano Accorsi, Kim Rossi Stuart, Raoul Bova, Claudio Santamaria, Edoardo Leo, Luca Argentero, Riccardo Scamarcio. Per finire a Elio Germano, Francesco Scianna e Luca Marinelli, fino ai giovanissimi Filippo Scicchitano e Lorenzo Rachelmy. «I maschi “focosi” interpretati da Buzzanca e Giannini mi hanno fornito lo spunto per il concept della mostra – racconta Adolfo Franzò – Sono partito dal modello “animalesco” che loro incarnavano per capire come è cambiato da quell’epoca in poi, al cinema e nella società, l’approccio del maschio latino. Attori come Kim Rossi Stuart o Valerio Mastandrea oggi interpretano ruoli vicini alla realtà, uomini meno aggressivi anche verso il mondo femminile, sono più naturali, a volte persino timidi, pur conservando una forte sensualità che li rende veri e propri sex-symbol».   Difficile dire quanto, per queste nuove generazioni, siano i ruoli dell’attore ad interferire sulla personalità dell’uomo e viceversa, fermo restando che le due sfere – quella privata e quella professionale – non possono non condizionarsi a vicenda. «Credo che l’influenza sia reciproca. Tranne quando sono chiamati a interpretare ruoli caricaturali dai profili artefatti per il tono grottesco del film, Favino, Accorsi e i loro coetani recitano sul set ruoli affini alla loro dimensione reale, veri e propri spaccati di vita, tanto che la maggior parte di loro è nella quotidianità molto simile a come lo si vede al cinema. Si tratta di un uomo-tipo dalla sessualità meno prepotente, più soffusa, meno egocentrica. E anche quando l’ego si sente, si tratta forse più di vanità». Questo approccio da “uomo comune” ha in qualche modo modificato anche il divismo maschile e il rapporto con il pubblico. «Attori come Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni o lo stesso Giannini – mi ci sono voluti vent’anni per riuscire a fargli un ritratto! – avevano una certa prosopopea che oggi è andata sfumando. Spesso creano più difficoltà gli agenti o gli uffici stampa che gli artisti, molto disponibili e tranquilli. Con molti di loro sono nate anche delle belle amicizie, sono persone normali».   Una normalità che, in qualche modo, si portano sul set e dentro le storie dei film, interferendo anche sull’evoluzione del cinema italiano, che va di pari passo con i cambiamenti della socetà e del costume. «Ha contribuito anche ad abbattare il tabù dell’omosessualità, che non viene più ritratta al cinema in chiave macchiettistica ma umana. Questo nuovo maschio ha una sua ambivalenza anche come sex-symbol, un’ambiguità che soprattutto nei giovani non suscita più alcuna idea di tragressione». Il titolo della mostra di Franzò si ispira «un po’ per gioco e un po’ per piacere» al film Ciao Maschiodi Marco Ferreri del 1978 con Gérard Depardieu, Marcello Mastroianni, James Coco e un simpatico cucciolo di scimpanzé. «Anche se, per il resto, non ci sono attinenze» precisa l’artista. Se non quell’amore per i dettagli che nutre una certa fascinazione per il particolare, da cui spesso è possibile ricavare un intero panorama. Sulle cose, così come sulle persone. Proprio come accade con i ritratti di Adolfo Franzò. Ironici o suadenti. Giocosi o ammiccanti. Misteriosi e penetranti. Virili o persino ambigui. Attraverso uno sguardo, una posa, una smorfia, anche solo un gesto involontario catturato dall’obiettivo.   «I soggetti della mostra sono belli e fascinosi, ma il segreto non sta tanto in chi fotografi ma in come lo fai. E poi ogni scatto conserva in sè il ricordo di un momento, oltre alla suggestione che la singola foto può suscitare c’è sempre una storia dietro. Un rapporto di fiducia e di complicità che rende prezioso ogni ritratto». Come la foto “rubata” nel lontano 1994 a Bentivoglio (la più antica della mostra), in spiaggia ad Ostia, prima che partisse per la Grecia dove i suoi amici stavano girando un film che avrebbe poi vinto l’Oscar, Mediterraneo di Gabriele Salvatores. O quella di Riccardo Scamarcio (l’unica chiesta apposta dall’attore stesso), in cui sembra preoccuparsi delle pieghe stropicciate della maglietta. Due scatti separati da un ventennio di cambiamenti e trasfarmozioni. Oltre i quali, comunque, ci sono cose che non cambieranno mai. Nelle prefazione al catalogo della mostra di Adolfo Franzò, firmata da Marco Finazzi (photo editor di Vanity Fair), per esempio, si legge che un buon ritratto maschile non deve turbare le lettrici. Non deve mostrare un uomo per il quale una donna potrebbe finire nei guai, né un uomo con il quale si annoierebbe a morte. Deve invece farle venire voglia di ballarci insieme. Una bellissima immagine. Una grande verità. Ciao maschio, dunque. E arrivederci al prossimo ballo.

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