Palermo, lettera di minacce al pg Scarpinato
Palermo, lettera di minacce al pg Scarpinato caccia all’uomo che è entrato nel suo ufficio
Processo Stato-mafia: s’indaga sui legami con P2 ed eversione nera
PALERMO – I toni e i contenuti evocano negli inquirenti l’inquietante riferimento che Giovanni Falcone fece alle “menti raffinatissime” che avrebbero progettato il fallito attentato nella sua villa dell’Addaura. Chi ha scritto e messo sulla scrivania dell’ufficio del procuratore generale Roberto Scarpinato, al primo piano del palazzo di giustizia di Palermo, la lettera intimidatoria in cui si “suggerisce” al magistrato di “rientrare” nei ranghi e non invadere spazi non suoi, conosce nel dettaglio le sue abitudini e i luoghi da lui frequentati. E, soprattutto, le inchieste che l’ex pm del processo Andreotti, da mesi, sta conducendo. A inquietare gli investigatori – l’inchiesta è passata per competenza alla procura di Caltanissetta, che sta visionando le immagini della videosorveglianza del tribunale – sono in particolare i riferimenti dettagliatissimi dell’anonimo alle abitazioni di Scarpinato che nella lettera vengono descritte con dovizia di particolari. Poi ci sono i toni, ossequiosi, ma decisi, gli inviti a non sottovalutare l’intelligenza del nemico, a non cercare di individuare l’autore che non lascia impronte e i riferimenti a frasi dette dal pg in occasioni non pubbliche. A trovare la lettera è stato lo stesso magistrato che il 3 settembre, al rientro dalle ferie, l’ha vista tra la corrispondenza posata sulla scrivania. Un modo plateale scelto per dimostrare la capacità di entrare indisturbati anche in quella che dovrebbe essere un’ala blindata del palazzo. All’ufficio si accede infatti attraverso la segreteria, ma anche da un ingresso secondario collegato all’atrio da un ascensore privato. Ma cosa ha spaventato tanto l’anonimo – che pare ben lontano dagli ambienti mafiosi – da indurlo a sfidare le misure di sicurezza del tribunale? Scarpinato – cosa anomala per un procuratore generale – si è autoassegnato il processo d’appello per favoreggiamento aggravato all’ex generale del Ros Mario Mori e starebbe conducendo indagini delicate sui legami tra l’ex ufficiale e ambienti legati all’eversione nera. Indagini che si intrecciano con quelle condotte dalla Procura che ha istruito il processo sulla trattativa Stato-mafia e che potrebbero far rileggere in una luce diversa anche il dibattimento sul presunto patto stretto tra pezzi dello Stato e Cosa nostra in cui Mori è imputato e le stragi del ‘92 e del ‘93. Tra la Procura Generale e la Procura c’è un continuo scambio di carte. Oggi i pm Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo hanno depositato nuovi documenti, subito trasmessi al pg, che proverebbero i rapporti di Mori con l’ex Venerabile della P2 Licio Gelli e alcuni terroristi neri. Tra gli atti anche il verbale di interrogatorio di un ex ufficiale del Sid, Mauro Venturi, che negli anni ‘70 lavorò a stretto contatto col generale. Venturi racconta che Mori, voluto nei Servizi da un uomo vicino a Vito Miceli, gli propose di entrare nella P2. “Mi disse che non era una Loggia come le altre – spiega – e mi invitò ad andare a casa di Gelli. Alle mie perplessità reagì dicendomi che quelli del Sid erano garantiti e che sarebbero stati inseriti in liste riservate”. Il testimone sostiene anche che Mori gestiva i contatti con la rivista Op di Mino Pecorelli. Tra le carte depositate anche un verbale di interrogatorio dell’ex giudice istruttore di Brescia Giovanni Tamburino che indagò sulla cosiddetta Rosa dei Venti, un’organizzazione di estremisti neri ed ex ufficiali, anche del Sid, con appoggi nella massoneria e nell’imprenditoria che progettò un golpe tra il 1973 e il 1974. Tamburino interrogò un uomo chiave dell’organizzazione, Amos Spiazzi, che gli rivelò di avere avuto ordine di attivare la cellula veneta della Rosa dei Venti da un capitano dei carabinieri in forza al Sid. Il giudice chiese la foto di servizio di Mori per mostrarla a Spiazzi e capire se quel capitano fosse lui, ma dopo averla ricevuta, la Cassazione, su istanza dell’allora pm a Roma Claudio Vitalone, gli tolse l’indagine che venne accorpata a quella romana sul golpe Borghese conclusasi poi in un nulla di fatto.