Caltanissetta
L’altro polo petrolchimico, a Gela né puzza né lavoro: svolta “green” incompiuta
A Gela le torce sono spente perché da tre anni non si raffina più petrolio. Eni dal 2014 ha cambiato mestiere a Gela puntando sulla chimica verde e su una bioraffineria ancora da realizzare. Un’inversione radicale di tendenza che si è avuta subito dopo aver ottenuto dal ministero dell’Ambiente l’Aia (l’autorizzazione integrata ambientale). Nel testo tante di quelle prescrizioni che, insieme alla crisi del mercato globale del petrolio e agli interessi del governo Renzi verso altri siti, hanno portato a cancellare il progetto texano di Mattei. Era una raffineria vetusta, altamente inquinante, con seri problemi di allineamento alle normative europee.
Il 2002 ed il 2003 sono stati anni cruciali nella storia del “Cane a sei zampe” a Gela, Nel 2002 la Procura, guidata da un gelese (Angelo Ventura) fece sequestrare il parco del pet coke, uno scarto del petrolio altamente tossico, unico combustibile per alimentare la centrale termoelettrica della raffineria. Ma per la Procura era un rifiuto e andava smaltito secondo la legge Ronchi. I lavoratori fecero le barricate per la raffineria che senza il pet coke non poteva marciare. Difesero il loro lavoro mettendo in secondo piano ambiente e salute nella città in cui ancor oggi si muore di cancro più che in altre zone d’ Italia.
Lo spinoso caso fu risolto come per miracolo dal governo Berlusconi che assecondò le volontà delle maestranze locali dichiarando con una legge ad hoc il pet coke un rifiuto.
L’anno dopo, nel novembre del 2003, un altro sequestro. Stavolta i magistrati fecero apporre i sigilli a 92 serbatoi utilizzati per lo stoccaggio dei prodotti petroliferi della raffineria. Un anno di inchiesta, scaturita dalla visione di un filmato realizzato da un’associazione ambientalista, che mostrava evidenti segnali di inquinamento delle falde acquifere sottostanti la raffineria. Ma anche di gran parte dello specchio di mare antistante l’area del petrolchimico, di ampi tratti della Piana di Gela e di zone di campagna circostanti. I carotaggi effettuati furono chiari: i serbatoi utilizzati per lo stoccaggio dei prodotti petroliferi “perdevano”, la loro manutenzione era decisamente insufficiente e i siti non erano stato mai bonificati. Eni fu costretta a dotare di doppi fondi l’intero parco dei serbatoi: via via che ne completava uno otteneva dalla Procura il permesso all’utilizzo.
Negli anni successivi vari incidenti gravi come l’incendio all’impianto topping e nel giugno 2013 un maxi sversamento a mare di sostanze petrolifere. Sono gli episodi più rilevanti della storia dell’Eni a Gela. Appartengono al passato.
Alla vigilia di Ferragosto del 2014 il premier Matteo Renzi venne a Gela a dire alla città che l’era del petrolio era finita, ma Eni sarebbe rimasta e non un posto di lavoro si sarebbe perduto. La fine del petrolio fu sancita a Roma con un accordo sulla riconversione datato 6 novembre 2014 i cui contenuti non hanno ancora trovato attuazione. Gela aspetta la svolta green con il volto di una città in ginocchio.
I lavoratori del diretto Eni per la metà il posto lo hanno in altri siti in Italia ed all’ estero mentre l’indotto via via si assottiglia senza le commesse dell’ Eni. Si respira aria buona oggi in città con le ciminiere spente ma tanti gelesi sono andati via , a cercare lavoro altrove.
I tempi della riconversione sono insopportabilmente lenti e ciò che resta a Gela è un protocollo che viaggia a rilento, una dichiarazione di area di crisi complessa che al momento è una scatola vuota (anche ieri Cgil, Cisl ed Uil hanno denunciato la Regione sorda alle richieste di incontro e che fa due pesi e due misure con Termini Imerese) e un accordo di programma che non c’è. Come non ci sono le bonifiche, eccetto alcune avviate timidamente dopo decenni di stallo. A Gela si soffre: per il lavoro che non c’è e per i tanti malati di tumore.
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