Politica
Calogero Mannino: «La crisi? Andare al voto la via più giusta»
Ha appena compiuto «quattro ventine». Così Calogero Mannino definisce i suoi 80 anni, prendendo in prestito una citazione di Giuseppe Ungaretti.
È stato festeggiato dagli amici più cari (si possono ricordare, tra i presenti, Totò Cuffaro, l’avvocato Totò Pennica, l’amico di sempre Lillo Craparo) nella bella villa bianca, a poca distanza dal mare, alle porte di Sciacca.
È stato ministro più volte (Marina mercantile, Agricoltura, Trasporti, Mezzogiorno) e deputato per sei legislature. Fu il protagonista di una stagione politica difficile negli anni ‘80, che portò la Democrazia cristiana (congresso di Agrigento, 6 febbraio 1983) alla cacciata dal partito di Vito Ciancimino e determinò il passo indietro di Salvo Lima. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato ucciso dalla mafia sei mesi prima e, sull’onda emozionale del delitto, la Dc si affidò a nomi e volti nuovi: Sergio Mattarella, Rino Nicolosi, Calogero Mannino con Giuseppe Campione segretario.
Lillo (come lo chiamano da tempo immemorabile gli amici) Mannino è stato anche plurinquisito, da ben 29 anni, e processato per 14 volte ottenendo altrettante assoluzioni. È convinto che in Italia il «problema giustizia» sia gravissimo e vada risolto quanto prima: «Non ho mai detto, come fanno tutti in questi casi, ho piena fiducia nella magistratura», aggiunge non senza una punta di polemica. È l’unico momento in cui il suo sorriso si spegne, come quando affronta i temi del suo vivere quotidiano. «Il tempo è ormai alle mie spalle».
Come vede questa crisi di governo?
«In tutta l’epoca storica della Prima Repubblica una crisi di questo genere non c’è mai stata perché tutta quell’epoca era fondata sulla presenza e azione dei partiti, che avevano precise identità e connotazioni ideologiche, politiche e di relazioni internazionali. C’era una Dc che era un partito di cattolici democratici, ma al tempo stesso un partito di moderati, di popolari. Era un partito che aveva come riferimento l’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti. Dall’altro lato c’era l’ Urss e il Partito comunista italiano che guardavano all’Europa orientale. La Prima Repubblica finisce perché non ci sono più questi partiti politici che avevano segnato, tuttavia, il limite della loro esperienza. Nel momento in cui cade il muro di Berlino che senso ha parlare più di Partito comunista? Nel ’92-’93 la Dc finisce per scissione perché una parte poi sceglierà di allearsi con Berlusconi, un’altra parte con quel Pci che, intanto, era diventato Ulivo, Elefante, Asinello, Margherita eccetera. L’onda emotiva di Tangentopoli e Mafiopoli del ’92 ha provocato la formazione di un partito che voleva gestire il dopo e anche il post comunismo. Ed è il partito di Occhetto e D’Alema, integrato dall’alleanza dei democristiani che scelgono di rompere la Dc. Nasce il primo fenomeno populista. La prima testa è nella Lega di Umberto Bossi di quegli anni; la seconda è La Rete di Orlando. La terza testa, beneficiaria della rottura del sistema, è Berlusconi che presenta agli italiani il rischio di avere al comando il Pci e gli ex Pci con alcuni alleati ex democristiani. Gli italiani, che sono moderati, scelgono Berlusconi. Ma Berlusconi cosa è? È soltanto un populista. Il partito che fa è un partito personale. Si dirà un partito di ceralacca, ma non è così. È un partito che interpreta il momento del cambiamento anche del sistema delle comunicazioni. Dalla carta scritta alla televisione si arriva all’offensiva del ’92-’94 contro la Dc e il Psi. Oggi Berlusconi ha esaurito la sua stagione».
E arriviamo a Lega e Cinquestelle…
«In questo vuoto creato si inserisce l’insorgenza della Lega che approfitta delle debolezze di Berlusconi e nasce questo fenomeno nuovo attraverso il grido di Grillo. Improvvisamente la politica non è più ideologia. Ha il sopravvento l’urlo di Grillo, della rabbia attraverso la rete e il telefonino. C’è una spaccatura tra i giovani e il resto della società. E questo fa la fortuna del M5S, che diventa il partito più forte. Il giorno dopo le elezioni i due movimenti populisti, che sono eguali e diversi al tempo stesso, non possono che allearsi. Ci fu il tentativo di portare ad allearsi M5s con Pd. Un tentativo non riuscito. Bersani venne mortificato. Sotto un certo profilo è la ribellione dei Cinque stelle verso il Pd. Così come si ribellò la Lega. In termini banali quella che hanno fatto prima Occhetto poi D’Alema e anche alcuni democristiani è stata un’operazione che ha alimentato un anticomunismo fuori tempo e fuori storia».
Ribellione verso il Pd che, tuttavia, ha portato ad una frattura insanabile.
«Oggi siamo in presenza della crisi di questo matrimonio che è un matrimonio non tra due sposi eguali e diversi. È un matrimonio confuso, non può reggere. E siamo arrivati a ora con un presidente del Consiglio, che per 14 mesi ha rappresentato questa alleanza. Conte che prende a schiaffi Salvini e questi reagisce in modo molto discutibile: secondo me, ha determinato un’immediata caduta di immagine. Ci sarebbe da fare una prima obiezione a Salvini: ma se tu non sei sicuro che si sciolgono le Camere come è che presenti la mozione di sfiducia? A chi la presenti, a te stesso? Perché non ti dimetti? Oppure, vai davanti agli italiani e dici: abbiamo fatto un tratto di strada insieme, non possiamo andare d’accordo, abbiamo una diversità di vedute, ci separiamo e andiamo al cospetto degli elettori. Il tema di queste ore è questo».
Sì, o è un dato assodato. Ma c’è l’urgenza di dare un governo al Paese.
«Adesso si potrà fare il tentativo di rabberciare una ipotesi di alleanza, mettere insieme Pd e M5S, ma non credo si possa fare un governo di legislatura. Ci sono tutte le premesse e tutti gli interessi anche di programma che sono in totale divaricazione. Il rischio che correrebbe il Pd a fare un’alleanza oggi con i grillini è quello di apparire una forza subordinata a loro e quindi potrà tentare di dire: non si parli di presidenza Conte, o Di Maio, troviamo una terza soluzione. Di fatto le elezioni sono state vinte dal M5S, non dal Pd. Questo consiglierebbe di andare davanti agli elettori perché loro devono dire cosa vogliono. Il rapporto di forza tra l’uno e l’altro determinerà il punto di equilibrio della nuova maggioranza. La consultazione elettorale mi sembra la via giusta».
Quindi andremo a votare?
«È probabile che prevalga una logica diversa che è quella di dare una lezione a Salvini, anche se a mio avviso la lezione a Salvini l’hanno data. Io non vedo più Salvini a 40% o al 38%. Credo che sia stato notevolmente ridimensionato. Sarebbe bene proprio per questo andare a votare. Se M5S e Pd ritengono di dovere fare maggioranza, corrono un rischio: che alle prossime elezioni, quando arriveranno, Salvini invece di prendere il 35% che potrebbe prendere oggi otterrà molto di più. Perché Pd e M5S come si possono mettere d’accordo? Tutto dice il contrario: non si sono messi d’accordo con Bersani; il M5S ha avversato Renzi, Renzi fa lo stesso anche se strumentalmente ha indicato una possibilità di alleanza solo per evitare il rischio elettorale. E allora come si mettono insieme? Mi pare una cosa che non sta in piedi».
Scenario davvero triste.
«Tutto questo è grave perché il momento socio-economico che sta attraversando l’Italia non è rassicurante. Oggi è tutto scompaginato. Chi guarda a Mosca chi a Pechino. Questo è lecito. Ma bisogna avere ogni interlocuzione con questi Paesi partendo dal dato concreto di appartenere ad una alleanza. Gli italiani devono chiarirsi le idee su queste cose: non si può chiede aiuto all’America ed essere anti-americani. L’Italia deve darsi un indirizzo politico che può solo venire dai partiti. Non è immaginabile la democrazia senza partiti politici».
Il presidente Mattarella che ruolo potrebbe avere?
«Mattarella ha il pregio di essere un uomo molto prudente, molto attento alle diverse esigenze, e sino ad oggi, ha dimostrato di essere garante così come chiede la Costituzione. In questi giorni ha un compito difficile, ma è ovvio che il presidente della Repubblica non si può sostituire ai partiti. Non può imporre alleanze. Il Presidente usa anche gli strumenti, all’interno di una correttezza costituzionale, per indurre i partiti politici a fare delle scelte adeguate. Non credo che Mattarella abbia una preferenza piuttosto che un’altra. Immagino che se si dovesse rendere conto che un governo Pd-M5S dovesse avere le basi fragili nel senso che non ha prospettive di legislatura, magari converrà sull’opportunità di andare ad elezioni. Ed è proprio questo il ruolo di garante, anche attraverso un governo di transizione, voluto dal Presidente. Che ha, intanto l’esigenza di mettere in sicurezza gli interessi del Paese, a partire dalla preservazione degli equilibri di bilancio, e la correttezza del dibattito elettorale».
Diamo un voto ai nostri governanti, come si fa a scuola. Cominciamo con Conte…
«Meglio chiederlo a Crozza. Lasciamo scherzare Crozza su queste cose…».
Niente voto manco per Salvini?
«Io sono fuori dalla politica. Io sono stato democristiano fino a quando c’è stata la Dc, sono intellettualmente e sentimentalmente legato a quella esperienza. Non ho preso parte ad altri movimenti politici. Adesso sono un privato cittadino ottantenne che pensa, che esprime la sua opinione, ma non dà preferenze o indicazioni».
Riusciremo ad uscire da questa situazione così grave?
«Sotto questo profilo ritengo che la consultazione elettorale possa essere utile perché rappresenterà un momento di responsabilizzazione degli elettori. Nessuna delle attuali forze politiche si può presentare con il profilo attuale. Davanti agli elettori si dovrà andare con una proposta politica piuttosto articolata. La linea delM5s non può essere più l’urlo di Grillo; la linea della Lega non può essere la paura che sollecita ed evoca Salvini rispetto a un drammatico problema che è quello dei migranti. Le forze politiche devono ritrovare un modo per ricomporsi, per parlare e spiegare ai propri elettori quello vogliono fare e quello che ritengono si possa fare. Quindi, a mio giudizio la consultazione elettorale è un passaggio obbligato, indispensabile, utile».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA